Su Twitter, da qualche tempo, può capitare di trovare una sorta di avviso, sotto a un tweet che si sta leggendo, che dice così: “I lettori hanno aggiunto informazioni contestuali che, a loro avviso, potrebbero essere interessanti per gli altri”. Segue un breve testo che è stato elaborato dal sistema sulla base delle osservazioni dette “community notes” che contributors registrati hanno fatto, e su quanto sono state ritenute utili da altri contributors. Per citare un esempio recente, sotto i tweet che pubblicavano le famose foto del Papa vestito da rapper, poteva capitare di leggere un testo che avvisava che quelle immagini non erano vere ma erano state realizzate da IA generativa. Un modo, negli intenti della piattaforma, di combattere la diffusione di fake news attraverso un sistema collaborativo che coinvolge gli utenti stessi, o per meglio dire alcuni di loro teoricamente “verificati”. Fin qui, tutto bene.
Due giorni fa, però, la giornalista Rula Jebreal ha anche lei, come moltissimi, riportato - condannandolo - il video della donna trans picchiata dagli agenti della polizia municipale milanese. E, dopo un po’, è comparso l’avviso. Che dice così: “Questo incidente è avvenuto a Milano, in Italia, il 24 maggio. L'individuo transgender sottomesso dalla polizia era stato denunciato dopo aver esposto il suo pene ai bambini delle scuole e minacciato di infettare le persone con l'HIV. Ha poi tentato violentemente di eludere l'arresto”. Notizia che, come ormai sappiamo, nel frattempo è stata ampiamente smentita, e che fa parte di una specie di montatura diffusa con lo scopo di giustificare l’operato degli agenti. “Sappiamo” si fa per dire, perché intanto l’avviso, ieri pomeriggio, era ancora presente. E tra i commenti non mancavano quelli che tiravano in mezzo la pedofilia e si rallegravano per il pestaggio. Quindi chi sono, questi solerti “contributors registrati” che non hanno aiutato Twitter a frenare la diffusione di una fake news, ma l’hanno piuttosto diffusa, di più, resa quasi ufficiale? Forse, si tratta di utenti in buona fede che l’hanno sentita riportare da fonti giornalistiche e l’hanno usata prima che fosse smentita. Oppure potrebbero essere più banalmente persone in malafede, interessate a spargere veleno e odio su episodi come questo. Probabilmente, le due cose insieme.
Poco importa: importa invece che abbiamo un problema, serio, perché invece di favorire la conoscenza della realtà e della verità, o almeno di qualcosa che gli somiglia, lo sviluppo tecnologico viene usato per ingegnerizzare le bugie, per renderle molto più subdole e difficili da individuare. Moltitudini mai così grandi le vedono, le prendono per vere, le usano per costruirci intorno certe convinzioni, e poi non è che si preoccupano più di tanto di approfondire, passano oltre perché peraltro hanno anche altro a cui pensare. Così, episodio dopo episodio, rapidamente si costruisce un clima, un panorama. Un contesto in cui certe idee possono prosperare e, a un certo punto, prevalere. Dopotutto, basta vedere chi governa il nostro Paese in questo momento, lo scivolamento è innegabile. Qualcuno potrebbe essere portato a pensare che le stesse cose le faceva Goebbels senza bisogno di internet, ed è vero, ma la questione è esattamente opposta, ovvero l’idea che un Goebbels di oggi - in realtà, molti più di uno - quel mezzo ce l’abbia facilmente a disposizione e lo usi senza scrupoli. Ne deriva che la trans molesta i bambini, lo straniero ruba, specialmente se ha la pelle scura, l’ebreo complotta, la donna se l’è cercata, il manifestante ha provocato e così via: di nuovo, niente che non si sia già visto. Solo che ora ce lo dice l’algoritmo, volete mettere la differenza? Uno strumento tecnico, e in quanto tale percepito come oggettivo, perché “l’ha detto l’algoritmo”, non importa che sia il risultato di una somma di stronzi molto molto umani, diventa un po’ la versione 2.0 di “l’ha detto la tivù”, che prima era “l’ha scritto il giornale” e prima ancora era, sarà un caso, “l’ha detto il Duce”. Nel frattempo, i superconduttori hanno rimpiazzato le valvole, peccato che noi, purtroppo, più o meno siamo rimasti sempre gli stessi.
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