«Non so se ci fa o ci è».
«Non è possibile che dica “Sono contenta”… è assurdo».
«È surreale questa intervista».
«Io rabbrividisco, dico solo questo».
Così negli studi Rai Elisa Di Francisca, classe 1982, campionessa olimpica di fioretto a Londra 2012, commenta l’intervista rilasciata a caldo dalla nuotatrice diciannovenne Benedetta Pilato, subito dopo essere arrivata quarta per un solo centesimo nella finale dei 100 metri rana alle Olimpiadi di Parigi.
La colpa di Pilato sarebbe quella di essersi detta felice, benché dispiaciuta del risultato, e di aver eletto quello a giorno più bello della sua vita: una cosa evidentemente assurda per Di Francisca e per tutta quella cultura tossica della performance che considera fallimento tutto ciò che non è perfezione, che giudica incomprensibile che una giovane atleta – che alla sua prima Olimpiade aveva mancato la qualificazione alla semifinale nella stessa specialità – oggi possa essere felice di aver sfiorato il podio, che possa dirsi soddisfatta della sua prestazione pur non avendo vinto niente.
È la tirannia della perfezione e ne vediamo manifestazioni ovunque – nel mondo dello sport, in quello scolastico, in quello del lavoro: sono le pressanti aspettative sociali attorno all’idea del risultato perfetto, i pubblici elogi a chi raggiunge i traguardi meglio e prima degli altri (spesso però senza considerarne le condizioni di partenza), l’ossessione del successo, l’idea che solo l’eccellenza possa garantire riconoscimento e rispetto. Sono i media, le pubblicità, i social che ci bombardano con immagini e storie di successo che sembrano raggiungibili solo attraverso sforzi sovrumani e una dedizione senza limiti, che creano aspettative irrealistiche e alimentano un ciclo continuo di insoddisfazione: poiché la perfezione è un traguardo irraggiungibile, siamo condannati a una corsa senza fine.
Ben vengano, quindi, le lacrime di Benedetta Pilato, perfetto antidoto alla tirannia della perfezione. Che ci aiutino a riconoscere il valore del percorso, dei progressi fatti. Che ci permettano di comprendere che un’atleta possa essere felice di un risultato eccezionale, anche se non perfetto.
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