top of page
  • Immagine del redattoregiuseppe civati

Dio è morto e anche Montesquieu non si sente troppo bene



È di gran moda la svolta autoritaria. Da ogni parte si sente ripetere che le democrazie sono sempre più incerte e che ci vuole il leader forte, l’uomo – meglio “solo” – al comando. Anche l’antiparlamentarismo ha trovato grande ascolto in questi anni e ha ottenuto più di un successo: è recentemente accaduto in occasione della riduzione del numero dei parlamentari, senza la revisione del sistema elettorale che era stata promessa (ciò ha comportato un’ennesima stretta in senso maggioritario e una notevole incertezza nell’attribuzione dei seggi). La stessa concezione di quel sistema elettorale – l’assoluta predominanza della scelta dei capi di partito nella costruzione delle liste rispetto alla volontà degli elettori – ha dato il proprio contributo alla torsione verticistica e al conseguente indebolimento della partecipazione democratica già in atto, con un’ulteriore perdita di credibilità proprio del Parlamento e chi vi è stato eletto.

 

Del resto, anche il messaggio del centrosinistra, due legislature fa, con la riforma Renzi-Boschi e la contestuale proposta dell’Italicum (bocciato dalla Corte costituzionale), non si discostava granché da ciò che vediamo oggi con la riforma presentata dalla maggioranza di destra: il Parlamento vissuto come una (inutile?) fatica, processi da semplificare, decisioni da prendere dall’alto, senza troppi impicci.

 

La pratica politica e istituzionale degli ultimi anni si è spinta già molto in là, tra il continuo ricorso al voto di fiducia e i decreti onnicomprensivi. Il governo propone e il Parlamento non dispone: si adegua.

 

Si chiama premierato e non è nemmeno questa di per sé una novità: non è un caso che da tempo ci siamo abituati a chiamare il presidente del Consiglio “premier”. Lo stesso è accaduto nelle regioni, dove i presidenti si fanno chiamare governatori e sono eletti con un sistema ipermaggioritario ormai da trent’anni.

 

Nel frattempo, in giro per l’Europa si sperimenta la democratura, ovvero la trasformazione di un sistema democratico e costituzionale in un regime autoritario, come è già in Ungheria e come molte forze politiche, anche nei Paesi di più lunga tradizione democratica e costituzionale, si augurano che sia. Oltre al Parlamento, anche ciò che la maggioranza non controlla direttamente e che dovrebbe essere indipendente e terzo, è sottoposto al governo e irrigimentato, a cominciare dall’informazione e dalla magistratura. Dio è morto e anche Montesquieu non si sente troppo bene.

 

In questo senso, la proposta di riforma Meloni, più ancora che la madre di tutte le riforme, è la figlia di tutte queste storture, la sintesi di questa deriva. Ne costituisce la sua istituzionalizzazione, attraverso la sua costituzionalizzazione. Del resto, anche il suo arrivo al governo, oltre a quella tendenza storica a cui si assiste in tutto il mondo occidentale (e non solo), è il prodotto di una serie di avvenimenti, di decisioni e di scelte che altri avevano assunto negli anni precedenti. Anche la proposta di riforma costituzionale condivide con tutto il resto questa caratteristica.

 

Non si vota più per il Parlamento, si vota per il Capo. Il Parlamento, al massimo, accompagna e, quando può, assiste. Se fin dalla Costituente era il Parlamento a “controllare” il governo, ora la situazione si ribalta. Anche della funzione di garanzia e di equilibrio del Presidente della Repubblica si potrà fare a meno. Rispetto al combinato disposto della riforma Renzi-Boschi e del sistema elettorale congegnato allora, l’obiettivo è dichiarato, senza troppi giri di parole. È più semplice, direi brutale. C’è anche una ragione storica, per chi viene da una tradizione che ha per lungo tempo considerato questa nostra democrazia “bastarda” (come proclamò Giorgio Almirante, ancora alla fine degli anni Ottanta) e non ha mai nascosto nostalgie per un sistema politico autoritario. D’altra parte, per non andare indietro nel tempo, lo stesso Orbán è un modello, come lo era stato Putin, per molti nella compagine di governo, prima che attaccasse l’Ucraina.

 

La maggioranza – insidiata da minoranze che la ostacolerebbero – non deve essere in alcun modo limitata. Dei pesi e dei contrappesi rimangono solo i primi. E sono sempre più pesanti.

 

Ci si chiede come andrà a finire. Per quanto riguarda l’iter parlamentare, lo scambio con l’autonomia differenziata – voluta fortemente dalla Lega, che è diventata nazionale e nazionalista, ma… – dovrebbe assicurare a Meloni i voti di tutta la sua maggioranza. A meno di una crisi di governo, non dovrebbero esserci grandi problemi. Insomma, la minoranza è compatta ma fino a un certo punto: Matteo Renzi, per una volta coerentissimo, si è già detto disponibile a non avversare la riforma, il Pd ha i soliti problemi di credibilità (nel 2016 la riforma era la sua), il M5s se la deve vedere con la blindatura della scatoletta di tonno, il campo delle forze politiche di riferimento costituzionale si è molto ristretto e consumato.

 

L’elettorato nel 2006 – Berlusconi e il premierato assoluto – e poi nel 2016 – la già citata Renzi-Boschi – ha già detto per due volte un clamoroso no, benché nell’ultima occasione la riforma provenisse da “sinistra” e il governo e il Pd avessero blandito tutti quanti con messaggi antipolitici e una campagna spettacolare. Le incognite questa volta sono più numerose. E non solo perché il Governo gode di un ampio consenso. Per le ragioni da cui siamo partiti: la tendenza è questa da molto, troppo tempo. E non è detto che la “difesa” della Costituzione, con partiti sempre meno organizzati e non più capaci di mobilitare le coscienze come un tempo, regga ancora. Sarà compito di chi ha a cuore la democrazia darsi da fare. E non dare nulla per scontato.


È uscito il nuovo numero di Ossigeno - La madre di tutte le battaglie, disponibile sullo store di People

Comments


bottom of page