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«Fare editoria è una funzione sociale fondamentale. È politica». Intervista a Giuseppe Civati

Aggiornamento: 6 lug


Riprendiamo qui l'intervista che Giulia Morotti ha pubblicato sul blog del Master In Editoria Dell’università Cattolica di Milano.


Casa editrice? Giuseppe Civati, la sua, preferisce definirla “causa” editrice: “Perché informare in modo asettico e senza prendere parte è impossibile” spiega il fondatore di Possibile e di People, “e se si parla di qualcosa senza prendere un orientamento in realtà lo si sta facendo”. 

A distanza di cinque anni dall’apertura della casa editrice, come descriverebbe People oggi? Finalmente ha una fisionomia, siamo arrivati a un punto di equilibrio. Abbiamo avuto la sfortuna di nascere in contemporanea al Covid e i primi due anni sono stati molto compromessi. Siamo partiti con l’idea di incrociare una serie di linguaggi, canoni, stili, formati diversi e finalmente ci stiamo riuscendo: abbiamo portato testi dal teatro ai libri e viceversa, abbiamo provato a lavorare sui codici tradizionali, ora abbiamo provato con il podcast. 


Qual è stato il punto di svolta? Trovare degli autori su cui possiamo contare. Volevamo far circolare soggetti e oggetti tra di loro e verso l’esterno, creare un laboratorio culturale, costruire un ambiente nel quale maturare proposte, iniziative editoriali, ma non solo. Da quest’idea siamo partiti e ora finalmente sta ingranando.


Lei, Stefano Catone e Francesco Foti lavoravate insieme quando lei era parlamentare. Quali sono i ruoli in People? La nostra realtà si caratterizza perché ha ruoli definiti ma fino ad un certo punto. Non ci piacciono i titoloni come direttore commerciale o direttore editoriale. Di libri ce ne siamo sempre occupati, ma non sempre abbiamo provato soddisfazione nel rapporto con le case editrici con cui avevamo lavorato. Abbiamo una struttura molto circolare e proprio in questo periodo stiamo ragionando su come definire meglio le competenze e le mansioni di ciascuno di noi. Ma l’idea di base rimane: ciascuno può fare le cose degli altri. 


People è anche un’agenzia di comunicazione. Perché questo progetto? Da soli i libri non ce la fanno. E, soprattutto, bisogna farli vivere il più possibile per farli diventare più grandi. La comunicazione è la realtà aumentata dei libri. E serve anche a rompere le bolle. 


Rompere le bolle? La lettura è sempre più verticale, le persone leggono soltanto un certo tipo di libro, e appena si propone altro, non va più bene. È pericolosissimo dal punto di vista culturale perché fa riferimento a una sorta di “identitarismo”.  Pensare che la nostra identità sia un dato ineliminabile è qualcosa di molto politico, ma che sta entrando pericolosamente nel mondo del libro. E diventa un problema per l’editore, perché costringe a essere molto selettivi e a rischiare di costruire delle piccole bollicine sempre più definite. Per questo, una comunicazione efficace può aiutare a distruggere queste bolle, o perlomeno ci prova. 


Da quattro anni esce anche la rivista Ossigeno. C’è spazio per lo slow journalism in Italia oggi? Questo in Italia è un tema difficile. Molte librerie hanno un rapporto alterno con le riviste: le mettono vicino al teatro o prima del bagno dei dipendenti. Ma soprattutto sta scomparendo dal paesaggio cittadino la forma militante delle edicole. Dopodiché, secondo me, più che spazio, c’è bisogno di questo tipo di giornalismo, per provare a offrire delle chiavi di interpretazione.


Può funzionare? Io credo di no. Ormai ci si informa su Instagram. Si vede un post, e allora forse in seconda battuta si apre un giornale. Ma raramente si legge un articolo di diecimila battute, anche se è la dimensione che consente di capire il senso delle cose, di approfondire. Questo tipo di informazione però è una chiave che va offerta a prescindere. Anche per i libri è così.


Parliamo di libri: quale pubblicazione vi ha tenuti svegli la notte? Il punto è che non sai mai come va a finire. È una scommessa. È uscito da poco Sottocorteccia: se le dicessi che sto pubblicando un libro su un insetto lei penserebbe che ho bevuto tantissimo, invece è scritto molto bene, gli autori sono degli influencer – nel senso buono del termine – e raccontano di cosa significa concretamente il cambiamento climatico per il territorio. Non lo avevamo previsto, ma sta andando molto bene. 


Quale libro pubblicato da altri avreste voluto pubblicare voi? Ce ne sono tantissimi. Gli amici di Edizioni Alegre fanno un lavoro sulla working class davvero bello. E poi c’è Bollati Boringhieri, che ha pubblicato il libro di Francesco Filippi dal titolo folgorante Mussolini ha fatto anche cose buone, avremmo voluto farlo noi, se fossimo stati un po’ più svegli. Poi, io in generale vorrei essere Neri Pozza, proprio tutto intero.


Ma in Italia abbiamo un problema di censura? Sì, senza dubbio. Noi abbiamo pubblicato con Raffaele Oriani il libro Gaza, la scorta mediatica, che è la storia dell’insoddisfazione di un giornalista di Repubblica che ha lasciato il lavoro perché trovava indecente che un grande gruppo editoriale non raccontasse le cose come stavano. Quando si ha una linea editoriale incredibilmente schierata – dalla parte della mancata informazione, prima che da una o dall’altra parte – poi succedono questi pasticci come il ritiro delle copie. Il problema alla base è il conflitto d’interessi e il bilanciamento dei poteri.


C’è almeno un segnale positivo? Quando il potere c’è ed è così avido dimostra che sta perdendo: la Rai, per esempio, se prosegue così si farà mangiare da mille altre forme di produzione televisiva, lo abbiamo visto con la 7, più recentemente la 9. Noi pensiamo che questi siano del Manifesto, ma è un gruppo che fa parte di un broadcaster internazionale, che non è esattamente un luogo di rivoluzione culturale. Ma al di là di questo, è importante che ci sia una forma di resistenza o perlomeno un aumento di aggressività.


In un’intervista del 2019 ha detto: “Si può fare politica anche con altri strumenti”. Lei sente di fare politica con la sua attività di editore? Sì, certo. Anzi, forse più di prima. Ma non parlavo solo dell’editoria, l’idea era l’attivismo in generale, la cura, l’impegno di chi è convinto che si debba mangiare diversamente, che si debba consumare diversamente, che si debbano tirare fuori dalla galera le persone che non sono colpevoli o che sono soltanto imputate di reati. La politica si fa con la corretta informazione, con lo studio, con la ricerca. E anche fare editoria è una funzione sociale fondamentale. È politica.


Anche quella di Ilaria Salis è una questione politica. Sì. Stavamo lavorando a un libro prima che venisse accolto il ricorso ai domiciliari. L’obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica raccontando la storia e la sproporzione della vicenda carceraria. Poi la candidatura e l’elezione al parlamento europeo: abbiamo dovuto ripensarlo. Ora è uscito sul sito di People un ebook gratuito dal titolo Ilaria e noi. Non può esserci alcun dubbio su quale sia la parte giusta della storia in collaborazione con Edizioni La Carmelina.


A “Il mondo al contrario” del generale Vannacci avete risposto con “Il generale al contrario” di Saverio Tommasi. Cosa ne pensa del fenomeno del self publishing? Avere un editore è necessario? No. E lo dico contro i miei interessi. Io sono molto laico, le cose possono funzionare in molti modi. E siccome la questione della mediazione sta diventando insostenibile, è ovvio che tutte le scorciatoie che si possono provare, si provano. Auto-pubblicarsi da una parte è un modo per trovare un editore, una sorta di test, dall’altra serve anche a movimentare l’editoria e a trovare nuove idee. Dopodiché, il vantaggio di avere una casa editrice è che magari il libro si fa meglio, ma purtroppo anche questo non è sempre vero.


A proposito di politica e di editoria, ha visto il giovane Berlusconi su Netflix? No, purtroppo non ancora. Ma lo vedrò, perché c’è un fattore di nostalgia di quando ero giovane anch’io, mettiamola così.

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