Da quando è nato, il web (e vale anche per i social network), funziona così: prima arrivano gli esploratori, che sono pochi, piantano tende e accendono fuochi per scaldarsi. Poi pian piano li segue il resto della civiltà, arrivano le strade, l’elettricità, le fognature, e così via. Per ultimi arrivano i turisti, che si fanno i selfie davanti alla Monument Valley e gettano per terra le cartacce. Quello è il momento di scappare.
Un’altra legge non scritta dei social network è che nessun adolescente vuole stare sullo stesso social in cui stanno anche i suoi genitori. L’abbiamo visto succedere su Facebook, che infatti vive ormai la tragedia di avere il più alto numero di utenti al mondo e al tempo steso di essere ormai ridotto a una morta gora. Malgrado gli sforzi dell’algoritmo, è praticamente impossibile trovarvi qualcosa di interessante, alla fine gli over “anta” del “buongiornissimo caffè” hanno vinto, anzi, si sono stufati pure loro e si sono spostati altrove, come estremo sfregio.
Le nuove generazioni digitali, nell’ultima decina di anni, hanno imparato ad applicare alla loro vita online quella flessibilità che gli viene richiesta con il lavoro, e si sono abituate a un continuo nomadismo: a ogni nuovo sbarco in massa dei boomer, si sono spostate prima da Facebook, poi i più giovani hanno preso ad abbandonare Instagram, e vedrete che tra non molto sentiranno il bisogno di mollare anche TikTok.
Ce lo dice la campagna elettorale, perché quando arrivano Salvini, Calenda e Berlusconi, come dire: è il momento di andare.
Non per intolleranza, intendiamoci: ma se uno è abituato ad spippolare il suo social preferito per trovarci le cose che gli piacciono, e improvvisamente inizia a comparirgli il Silvio nazionale che biascica, perché dovrebbe restarci? E con Calenda è pure peggio, perché lui non si limita a sbarcare su TikTok, no, lui pretende di spiegare come funziona a chi c’è già. Non resta che fuggire altrove.
La questione, si badi, è meno superficiale di quanto potrebbe apparire, è anzi un perfetto esempio della qualità media della classe dirigente di questo Paese: che rifiuta sistematicamente di capire la realtà, arriva sempre tardi, e anche quando arriva comunque non ci ha ancora capito nulla (sembra ieri, ma ancora nel 2014 Bersani chiamava internet “l’ambaradan”). Era così anche prima dei social network, chi ha provato a occuparsi di web in Italia alla fine degli anni Novanta certamente ricorderà la frustrazione di dover andare nelle aziende a proporre modelli di comunicazione e di e-commerce sentendosi rispondere che “i clienti non si fideranno mai e poi mai a usare la loro carta di credito su internet, per paura che qualcuno gliela rubi”. Quando è nato Amazon, e le aziende italiane hanno avuto una decina d’anni per adeguarsi e capire che dopotutto si poteva vendere online, hanno continuato a dormire beate. E quando infine la compagnia di Bezos è sbarcata anche da noi, ormai era troppo tardi. Si sono messi a piangere contro lo strapotere delle multinazionali, e hanno iniziato a chiedere leggine ad hoc. Del resto, molti anni fa, uno dei più noti imprenditori italiani, Carlo De Benedetti, si rifiutò di investire in una promettente start-up che muoveva i primi passi nel mondo del personal computer. E che si chiamava Apple. Per dire la lungimiranza. nel frattempo passano gli anni e i decenni, e il gap di comprensione resta invariato.
E siccome la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa, oggi ci tocca assistere a questo festival del cringe in cui tromboni che si muovono in processione come elefanti verso il cimitero si spostano da un social all’altro, nell’illusione di intercettare così nuove e promettenti fette di utenti. I quali, nel frattempo, si affrettano a cercare qualche altro posto in cui stare.
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