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  • Immagine del redattoreRaffaele Oriani

I morti "del" 7 ottobre e quelli "dal" 7 ottobre



I morti e le distruzioni sono sotto gli occhi di tutti. Quelle del 7 ottobre con le stragi di Hamas, e quelle dal 7 ottobre con i massacri dell'esercito israeliano. È passato un anno che ha messo fine a decine di migliaia di esistenze. Eppure sembra tutto sempre ancora all'inizio. Lo sconvolgimento è tale che le fratture geopolitiche fanno la figura di dettagli secondari, cascami empirici di scosse telluriche tanto più profonde. Abbiamo passato un anno senza guardarci allo specchio. Se il dolore degli israeliani ci è stato reso famigliare da un flusso continuo di testimonianze dirette e indirette, la loro violenza si è mantenuta sempre a distanza di sicurezza. Perché noi siamo loro: democrazie contro autocrazie, civiltà contro barbarie, vita contro morte. Ma se è naturale empatizzare nel dolore, diventa più problematico identificarsi con chi tra le rovine di Gaza sghignazza inneggiando alla distruzione totale. E così ci identifichiamo a metà: non ci guardiamo allo specchio per non vedere che la nostra immagine è a pezzi. In Israele la metà lasciata libera dal dolore si è saturata di odio, rabbia, furore: “Non riesco più ad addormentarmi se prima non vedo qualche video di case palestinesi distrutte. Eppure non ne distruggiamo abbastanza” dice a dicembre 2023 un giornalista dell'israeliana Channel 14. E un altro gli fa eco ad agosto 2024: “Mi fa rabbia che lo stupro dei prigionieri non sia una pratica ufficiale del nostro regolamento carcerario”. I sondaggi demoscopici rilevano che milioni di israeliani si sono persi in un abisso insondabile. Ma noi? Di cosa si è nutrita la parte di noi lasciata libera dallo sconforto? Ecco, siamo a pezzi. Intendiamoci: meglio i brandelli dell'odio. Ma quest'anno di orrore ha disintegrato anche l'idea che avevamo di noi stessi, e non è chiaro con cosa la sostituiremo.

 

Ho passato gli ultimi mesi a registrare i massacri di Gaza e i racconti reticenti o inesistenti che ne hanno fatto i nostri media. Uno degli ultimi ha colpito una giornalista, suo marito e i loro due figli: scivolati tra le brevi di cronaca da una parte, nel silenzio dall'altra. Nessuno dei grandi inviati con grandi entrature nell'Idf che chieda mai spiegazioni: perché quella casa, perché quella famiglia? Ma oltre le morti, a fare impressione è lo sbriciolamento del nostro discorso pubblico, la conclamata rinuncia perfino a ogni ipocrisia. Il vizio non rende più omaggio alla virtù, e rivendica direttamente la supremazia del doppio standard: attenzione per gli uni, indifferenza per gli altri. Su Repubblica un editorialista accorto come Stefano Folli si lascia sfuggire il non detto: “Le migliaia di morti a Gaza sono una tragedia che scuote le coscienze. Ma le scuote solo in Occidente, dove esiste una civiltà giuridica e un senso di umanità”. Solo in Occidente. Siamo solo noi, tutto il resto è contorno, paesaggio, giungla che assedia il giardino, come ebbe a dire l'Alto rappresentante della politica estera europea Josep Borrell. Ma l'impressione è che non siamo (ancora) attrezzati per questo sovranismo violento, su scala continentale. Le nostre migliori risorse sono cresciute in un altro mondo, si sono confrontate per decenni con valori universalisti, scenari inclusivi, slanci transnazionali. Era il lato buono della globalizzazione, che per esempio, proprio in Italia, ha alimentato una scuola di studiosi del diritto internazionale che quest'anno sono state voci preziose a difesa dei palestinesi: Francesca Albanese, Chantal Meloni, Luigi Daniele, solo per citarne alcuni. Ma come si concilia questa nostra cultura universalista con un discorso pubblico che spartisce torti e ragioni, narrazioni e silenzi, empatia e indifferenza, distinguendo sempre tra noi e loro?

 

Tutto sembra vacillare dopo quest'anno di massacri seguito a una giornata di massacri. Nel nostro piccolo, noi europei, democratici e occidentali, mi sembriamo a un bivio cruciale: scrollarci di dosso i doppi standard o rimetterci al lavoro per una cultura solidamente razzista. Non credo si potrà continuare a lungo con quest'atteggiamento à la carte: il cono d'ombra ha preso troppo spazio, l'angolo visuale sfuggito agli assiomi universalisti ha fatto troppi danni, troppi morti con troppe complicità. Quest'anno ci ha insegnato che la cultura liberale può essere una trappola: i tanti che ancora invitano Israele a “completare il lavoro” ci fanno capire che, se si emancipa dall'amore per la vita di tutti, l'amore per la democrazia di alcuni può provocare distruzione e morte come quello per le peggiori teocrazie. Lo storico Enzo Traverso ha parlato di alterativa tra illuminismo e orientalismo, dove il primo sta per i diritti universali e il secondo per la gerarchia delle civiltà se non addirittura delle razze. Ecco, penso che l'anno passato dal 7 ottobre 2023 ci consegni anche questo compito: il cessate il fuoco è l'urgenza del minuto presente, ma se non vogliamo che il genocidio si installi nell'orizzonte delle nostre possibilità, una cultura autenticamente umanista dovrà essere l'impegno dei prossimi mesi, anni e decenni.


Raffaele Oriani è autore per People di Gaza, la scorta mediatica

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