«Perché non ci ho pensato io? Vaffanculo!»: ecco un possibile, immaginario retroscena del labiale rubato a Berlusconi durante la prima seduta del Senato di giovedì mattina. Non esattamente un diverbio con Ignazio La Russa, piuttosto un rammarico: ma come, tre volte Presidente del Consiglio e capo del centro destra in anni e anni di carriera politica, e non gli era mai venuto in mente di far eleggere un fascista-non-tanto-post alla seconda carica dello Stato? E dire che ne ha fatte, di tutti i colori, ma nemmeno lui si era mai spinto a tanto. Che affronto, e allora lo sapete che c’è? Ordine tassativo ai suoi di non votarlo, l’Ignazio, così vediamo se riuscite a farlo eleggere presidente del Senato. E invece… oltre al danno, la beffa.
Ma beffa da parte di chi? Bisognerebbe riunire tutti i soliti sospetti in una stanza, allineati, in un confronto all’americana, come nel famoso film di Bryan Singer. Forse qualcuno ricorda la famosissima scena: Kevin Pollack, Stephen Baldwin, Benicio del Toro, Gabriel Byrne e Kevin Spacey schiena al muro, davanti a uno specchio unidirezionale, e dall’altra parte le vittime: fatemi un po’ vedere meglio il terzo da destra? Uhm, chissà. Ridacchiavano tutti, in quella scena culto, ma non perché fosse scritto nella sceneggiatura. No, ridevano perché Benicio del Toro si era messo, beh, a scoreggiare. Per quello, almeno, si sapeva a chi dare la colpa, mentre per conoscere l’identità della mente dietro alla macchinazione su cui ruotava tutta la trama si doveva aspettare la fine del film, e finalmente veniva rivelato che Keyser Söze era proprio l’ultimo di cui avremmo mai sospettato. Chissà se riunendo nella stessa stanza Letta, Franceschini, Calenda, Renzi e Conte si otterrebbe una confessione, ma si potrebbe almeno sperare di evitare le flatulenze, anche se non si sa mai, e ottenere una soluzione meno cervellotica. Matteo, sei stato tu? E lui ridacchia.
Una cosa che ci ha insegnato proprio Keyser Söze, però, è di sospettare anche degli insospettabili: «La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste», parole sue. Tipo Giorgia Meloni, che ha passato tutto il mese a rassicurare gli osservatori, e poi la sua maggioranza ha eletto a guida delle Camere il comiziante a un raduno di fasci che Marco Bellocchio aveva scelto come primissima inquadratura di “Sbatti il mostro in prima pagina”, nel 1972, e quell’altro già pro-Putin, già pro-discriminazioni, e pure già ministro ai tempi del Governo Conte I. Un colpo di scena col trucco, per renderlo meno telefonato, come quando si scopre che il colpevole dopotutto era per davvero il maggiordomo. Diabolica Keyser Giorgia, chi l’avrebbe mai detto? Beh, oddio, gli indizi non mancavano.
Qualcuno, giustamente, l’altro ieri ricordava che stiamo ancora aspettando di sapere quali fossero i famosi 101 che silurarono l’elezione di Romano Prodi a presidente della Repubblica, nel 2013, anche se va detto che nel frattempo una certa idea ce la siamo fatta, e molti se la sono già fatta anche questa volta. Ma le legislature sono lunghe - non sempre, ma in genere - e l’esperienza anche recente dovrebbe insegnarci che riservano capovolgimenti su cui non avremmo scommesso un euro. Chi avrebbe detto, cinque anni fa, che i Cinque Stelle avrebbero governato con la Lega? E che poi l’avrebbero sostituita con il Pd, senza fare una piega? E che poi sarebbero finiti tutti insieme appassionatamente? E che poi quella passione sarebbe finita all’improvviso, rompendo la legge non scritta che non si fanno mai crisi di governo ed elezioni quando gli italiani sono in vacanza? Eppure è successo. Anche la soluzione al mistero che apre questa legislatura potrebbe avere risvolti meno scontati di quanto molti non pensino, e non è detto che chi vi è entrato da sinistra o dal centro, quando finirà, esca dalla stessa porta.
Una sottotrama, però, ci piacerebbe che non venisse lasciata troppo tempo in sospeso o addirittura abbandonata dagli sceneggiatori: quella dei presunti dissapori di cui tanto si è parlato in questi giorni. Se, come è ancora possibile, entro fine ottobre Giorgia Meloni riuscirà a formare il suo Governo, allora si tratterà di uno degli esecutivi nati più rapidamente in tutta la storia repubblicana. Solo che non è così che appare agli occhi degli italiani, pompati dai media e dai flussi social, giacché non siamo più ai tempi del pentapartito e delle sue lente liturgie, oggi qualsiasi processo che non si risolve in 24 ore ci fa venire il sospetto che non stia funzionando, che qualcosa sia rotto. Il potere aggiusta molte cose, e non c’è dubbio che anche questa volta la prospettiva di governare il Paese potrà ricomporre molte delle asprezze in corso in questi giorni fra gli alleati della destra. Ma per quanto? Questa è la domanda, o meglio, un po’ è la speranza. Per esempio, c’è questo anziano, traballante miliardario, diventato un po’ l’ombra di se stesso, non più potente come un tempo ma ancora temibile, a cui qualcuno ha fatto uno sgarro di quelli seri, e lui medita vendetta, si segna tutto come la Sposa in Kill Bill, a meno che quell’elenco non sia in realtà un MacGuffin hitchcockiano. E c’è questo improbabile leader il cui consenso è in caduta libera, che soffre per l’ascesa di una rivale che gli ha soffiato tutto ciò che fino a poco prima era suo, più un solito ignoto che un solito sospetto, probabilmente quello che nel film si consolava con una pasta e ceci rubata dal frigo: un audace colpo, per chi si accontenta. I personaggi sono solidi e ben delineati, speriamo che le future trame sappiano valorizzarli.
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