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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Il Campo Largo che non lo era


Cucù, il Campo Largo non c’è più. Anzi, non c’è mai stato, scrivono oggi unanimemente i giornali. Ma allora, di grazia, di cosa abbiamo parlato negli ultimi due anni? Anzi, da un certo punto di vista dovremmo ringraziare e non star troppo a sottilizzare: potevamo ritrovarci a parlarne per tutta la durata della legislatura. Scampato pericolo, quindi? Macché, andremo avanti ancora a lungo, vedrete. Ce lo dice, se non il buon senso che qui non ha casa, la spietata logica dei blocchi: a fronte di una frammentazione cronica, certo nell’offerta ma a esser sinceri anche nella domanda, se ne dovrebbe prendere atto e buttare nel rusco questa legge elettorale, passando a un modello proporzionale che ne tenga conto, o almeno non provochi le distorsioni attuali, ma nessuno sembra averne la minima intenzione. E quindi eccoci qui, a discutere all’infinito di cose da far stare insieme che non sembrano fatte per stare insieme.


Con effetti talvolta tragicomici, come in questo caso. Ci sono due leader politici, in particolare, nel pur disinvolto panorama italiano, che hanno dimostrato più e più volte che di loro non ci si può fidare, e rispondono al nome di Matteo Renzi e Giuseppe Conte. E in mezzo a chi si trova incastrato il Pd? A Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Bingo. L’uno, Renzi, come la lucertola che sacrifica la coda nella trappola scommettendo sul fatto che gli ricrescerà, ha giocato un all-in in cui ha già perso un pezzo di partito, qualche strapuntino locale, e la libertà di perseguire una politica dei due forni, anzi tre, un po’ a destra, un po’ a sinistra, o al limite da solo. L’ha fatto sapendo che così avrebbe scardinato il Campo Largo (quello che non esiste)? L’ipotesi è maliziosa, quindi in effetti è molto probabile. Dall’altra parte, Conte ha la stessa necessità che aveva due anni fa alle scorse politiche: tenersi le mani libere, e ottenere di più per il M5S, pazienza se poi vince Giorgia Meloni, con cui poi qualche accordicchio di sottogoverno si può in fondo fare. E così si tiene buona anche la fronda alimentata dal fondatore del Mov.


Traspare un limpido disinteresse per questioni uno zinzino più urgenti, tipo la tenuta democratica del Paese, la necessità di arginare i neofascismi, una situazione internazionale ribollente, le crisi del modello produttivo, la crescente sfiducia nelle istituzioni, l’emergenza climatica, la trasformazione dell’Europa in un recinto, eccetera. Ma le ambizioni personali contano evidentemente di più. Basta dirlo.


E adesso? Ah, saperlo. La matematica di cui sopra non mente: uno schema servirebbe, perché divisi la partita è ingiocabile, a meno di scommettere su fratture uguali nel campo avverso, verso la creazione di un polo centrista di cui sentiamo parlare dalla caduta del Muro senza averlo mai effettivamente visto. Ma anche fosse, con che esito? Governare con Forza Italia? Non proprio il migliore dei mondi possibili, altro che “agenda radicale”. Un indizio, probabilmente inconsapevole, viene proprio dall’intervista con cui Conte ha annunciato la fine del Campo Largo, quando ha detto che c’era un tavolo, e che improvvisamente ci hanno trovato seduto anche Renzi (i renziani tuttora nel Pd, evidentemente, non li aveva notati). Quindi c’era un tavolo, ovvero un’alleanza? Non lo sapevamo, anzi, era stato negato fin qui. Se c’era, sapere di cosa si parlava quando si riuniva potrebbe essere utile.

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