Di Silvio Berlusconi abbiamo già scritto la settimana scorsa, se ci torniamo è solo perché nell’ultima settimana un paio di fatti hanno riportato a galla una questione che lo ha riguardato da vicino, di cui molto si è parlato per circa due decenni e poi è semplicemente finita nel dimenticatoio. Non solo per colpa sua, ma anche per un certo antiberlusconismo che individuava i problemi non in quanto tali, ma riferiti a lui in modo specifico, con una personalizzazione che non ha fatto altro che polarizzare il dibattito, tendenza che peraltro lui stesso ha amato fomentare. Per la precisione stiamo parlando del conflitto di interessi.
Berlusconi ne aveva uno gigantesco, riguardante in particolare le tivù e i mezzi d’informazione da lui posseduti, e l’uso piuttosto diretto che ne ha fatto per procurarsi consenso. L’uomo, sia detto come nota asettica, nella lunga fase del duopolio Rai - Mediaset non si è trovato a controllare, a seconda che governasse o meno, tutta o comunque almeno la metà dei canali in chiaro per un caso del destino, ma anche per la sua capacità di credere nel modello della tivù commerciale quando altri gruppi all’epoca illustri - Rusconi e Mondadori - avevano gettato la spugna. La prima reazione delle istituzioni alla sua affermazione fu quella di cercare di farlo chiudere, cercando di impedirgli di trasmettere sull’intero territorio nazionale e in diretta a colpi di ordinanze, quando invece sarebbe stato più saggio prendere semplicemente atto del fatto che il sistema radiotelevisivo stava cambiando, che serviva stabilire un tetto alle quote di frequenze e al mercato pubblicitario: ma allora sarebbe stato necessario metter mano anche alla Rai e al suo sistema lottizzato, e questo era contro l’interesse dei partiti, nessuno escluso. Cosicché, quando Berlusconi è poi sceso in campo era ormai tardi, e a quel punto riformare il settore significava portare una materia tecnica e di mercato su un piano personale, cosa di cui lui ha approfittato largamente. La faccenda, tra proclami e tira e molla, è andata avanti talmente tanto a lungo da perdere quasi (ma non del tutto) di significato, visto che oggi tra piattaforme e sistemi alternativi di fruizione l’offerta è molto più frammentata di quella del 1994, e infatti giace sepolta e dimenticata, dopo aver a lungo occupato la scena. Con un effetto indesiderato molto rilevante: poiché parlare di conflitto di interessi significava parlare di Berlusconi, l’argomento è stato abbandonato in ogni ambito, col risultato che nel 2023 questo è un Paese in cui si può fare un po’ quel che si vuole, e nessuno batte ciglio. Da conflitto di interessi a conflitti che non interessano.
Se ne parliamo, dicevamo, è perché nel divertente e a tratti surreale parapiglia che ha portato al fallimento del partito unico tra Azione e Italia Viva, Calenda tra le altre cose è tornato su una questione riguardante Renzi che lo infastidiva da prima che i due si alleassero, e che era stata momentaneamente e tatticamente messa da parte per mero interesse elettorale: quella relativa alle consulenze di Renzi fornite in particolare a soggetti e istituzioni anche extranazionali. Nel documento che avrebbe voluto essere fondativo del nuovo soggetto, infatti, compare un articolo che disciplina questo genere di attività non sulla base della normativa italiana, sostanzialmente permissiva, ma di quella riguardante il Parlamento Europeo, cosa che forse avrebbe segnato la fine delle conferenze internazionali lautamente retribuite. Legittime, almeno per le nostre leggi, ma problematiche dal punto di vista politico: nel momento in cui il senatore Pinco Pallino viene pagato da un’azienda o da un Paese straniero per partecipare ad attività inerenti interessi economici, e poi si ritrova in Parlamento a dover votare su quegli stessi interessi, chi sta rappresentando? Il Paese o i suoi clienti? Prendiamo il Qatargate, e supponiamo che quelle fossero consulenze a norma di legge, perfettamente legali, non si porrebbe comunque un problema di opportunità? Eccolo, il conflitto di interessi di cui sopra.
Nel frattempo, proprio per allontanare la tentazione di parlare delle persone invece che delle questioni, nel tourbillon di nomine decise dal Governo Meloni ne è comparsa una che non può non destare perplessità, quella di Cingolani: era stato responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo fino al 2021, poi è diventato ministro della Transizione ecologica del Governo Draghi, poi consigliere per l’energia del Governo Meloni, e ora rientra in Leonardo come Ad. Siamo oltre le porte girevoli, è più una centrifuga. In questo caso forse nemmeno legittima, visto che una norma apposita vieterebbe a un ex ministro di ricoprire ruoli in enti pubblici nei 12 mesi successivi ai suoi incarichi governativi. Verrà applicata o si troverà l’escamotage per bypassarla? Sarebbe facile fare previsioni, purtroppo. Ovviamente, i difensori di Cingolani diranno che la persona è al top delle competenze, così come i sodali di Renzi ne difenderanno la “disciplina e onore” con cui svolge il suo mandato senatoriale. Esattamente come i berlusconiani proclamavano l’assoluta separazione in buona fede del leader politico dal tycoon televisivo, pur essendo semper lu. È il problema della personalizzazione: le norme non possono essere più permissive o più restrittive a seconda che si ritenga Berlusconi, Renzi o chiunque altro più o meno onesto, trasparente, affidabile. Vanno fatte per tutti, e applicate con chiunque. Solo che, purtroppo, come scriveva Longanesi, “in Italia la rivoluzione non si può fare, perché ci conosciamo tutti”.
Comments