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Immagine del redattoreFranz Foti

Il declino del Quarto Potere


La prima settimana dello scorso luglio gli iscritti alla newsletter del Presidente Biden si sono visti recapitare un messaggio piuttosto diverso, nel tono e nei contenuti, da quelli che il 46esimo Presidente degli Stati Uniti è solito inviare ai propri sostenitori. La mail, scritta in prima persona da Biden stesso, invitava i lettori a non dare troppo peso al dibattito che si era scatenato sulla stampa e nei canali all-news in seguito al disastroso dibattito che qualche giorno prima lo aveva visto sfidarsi con Trump in diretta sulla CNN. "Voglio che vi chiediate, su cosa hanno avuto ragione queste persone ultimamente? Davvero. Pensateci". L'email continuava poi citando quelli che il Presidente e il suo staff ritengono essere alcuni dei molti errori commessi dai media generalisti negli ultimi anni, tra cui le possibilità di Biden di vincere le primarie del 2020 e in seguito le presidenziali, l'"ondata rossa" che avrebbe dovuto materializzarsi durante le elezioni di medio termine del 2022 e una serie di questioni politiche complesse, tra cui il controllo delle armi e la legislazione sui cambiamenti climatici. "Lasciate perdere gli opinionisti" proseguiva Biden, invitando gli (e)lettori in un certo senso ad affidarsi a lui stesso per ricevere informazioni sulla campagna elettorale.

Inutile dire che si trattava di giorni di fortissime tensioni alla Casa Bianca, il cui principale inquilino stava incassando l’ondata di critiche e preoccupazioni sorta in seguito alla sua performance nel dibattito di cui sopra. Non avendo ancora maturato la decisione di ritirarsi, che sarebbe arrivata solo un paio di settimane dopo, il Presidente stava ancora cercando di fugare le voci di un passo indietro che all’epoca assicurava di non aver alcuna intenzione di fare. Ciò nonostante, si è trattato di un messaggio molto diretto e con toni di critica molto forti, del tutto inconsueti per un democratico, al punto che in un indignato editoriale sul New Yorker il celebre commentatore Jay Caspian Kang non ha esitato a definirlo “trumpiano”. Se però un uomo con più di qualche spigolo, ma generalmente moderato come Biden ha scelto di rivolgersi alla sua base in maniera così irrituale, è perché sapeva di sfondare una porta aperta. Come mostrato in ormai diversi sondaggi consecutivi dall’istituto di ricerca Gallup – l’ultimo del 15 luglio scorso – la fiducia degli americani in quotidiani, riviste e news televisive è la più bassa di sempre: solo il 18% degli intervistati dice di avere molta o abbastanza fiducia nella stampa, e un ancor più misero 12% dice di averne per le news televisive. E se negli ultimi anni una certa diffidenza verso i media tradizionali era generalmente appannaggio proprio della destra trumpiana, come deve aver realizzato lo stesso Biden, oggi questo sentimento è condiviso anche – forse persino di più – dall’elettorato di sinistra, che incolpa tanto gli storici quotidiani USA quanto i principali canali all-news del Paese di una copertura sbilanciata e fintamente “equidistante” del dibattito politico, che ai loro occhi trasuda a volte desiderio di spettacolarizzazione, altre incompetenza, altre ancora scarsa indipendenza.

È difficile dar loro torto, d’altro canto, e proprio il fatidico dibattito presidenziale del 27 giugno scorso e i commenti che lo hanno seguito ne sono un esempio. Senza voler sminuire la portata della débâcle di Biden, è impossibile non notare come nessun peso o quasi sia stato dato sui media statunitensi alla marea di bugie clamorose, di tesi bizzarre e di propositi inquietanti usciti dalla bocca di Trump in sole due ore. Si è dedicato talmente tanto spazio alla performance di Biden, da non mettere minimamente a fattore i contenuti – per carità, non sempre imperdibili – di quello che in fondo non era un casting né una prova a eliminazione di un talent show, ma il confronto tra i due contendenti per uno degli incarichi più importanti dell’intero pianeta.


Lo stesso, purtroppo, si può dire della copertura data ai recenti processi che hanno visto imputato – e in alcuni casi condannato – Trump, in cui ha avuto la meglio l’indugiare sui passaggi più scabrosi delle vicende in questione, invece che la portata e la gravità della condotta di quello che rischia di tornare a essere il Presidente degli Stati Uniti. Allo stesso modo, la discesa in campo di Kamala Harris è stata fin qui raccontata più per gli aspetti pop, come l’appoggio di questa o quella celebrity o le campagne social a base di noci di cocco e gattini, che non per il portato politico dell’attuale vicepresidente. Addirittura, nei giorni in cui scriviamo, la maggior parte dei network televisivi americani hanno trasmesso in diretta senza alcun commento o contraddittorio una delirante conferenza stampa fiume in cui Trump ha fatto sfoggio del proprio repertorio di insulti vergognosi e bugie infamanti, questa volta ai danni della nuova avversaria, senza dare alcuno spazio alle repliche della stessa Harris, giudicate evidentemente meno interessanti – o polarizzanti.

Già, perché come detto la sensazione delle cittadine e dei cittadini americani è che tanto i grandi quotidiani come il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal  quanto i grandi network come CNN e FoxNews sono a caccia dello scoop, della rivelazione, del lancio in esclusiva, più che alla ricerca del modo migliore e più efficace di raccontare la politica USA. La perdita di lettori e spettatori a favore dei “nuovi” media – dai social network e i siti di notizie alla galassia dei podcast – ha infatti ridotto di molto l’autorevolezza e lo status di quelle che un tempo erano considerate preziose istituzioni, le quali peraltro devono rispondere spesso a padroni molto ingombranti. 


Se il caso più noto è quello del Washington Post, acquistato ormai diversi anni or sono dal fondatore di Amazon – e secondo uomo più ricco al mondo – Jeff Bezos, questo non è certo l’unico. Il Wall Street Journal e il New York Post sono infatti di proprietà di Rupert Murdoch tramite la sua News Corp, che è anche proprietaria di Fox News e del colosso dell’editoria HarperCollins. 

La storica avversaria di Fox News, la celeberrima CNN, è del gruppo Warner Bros/Discovery, proprietario del colosso cinematografico Warner Bros, dei canali tv Discovery, HBO, Cartoon Network, Animal Planet e Food Network e della casa di fumetti DC – quella di Batman e Superman, per capirci.

Chi fosse interessato a un tipo di giornalismo più alto, quello dei grandi periodici come The Atlantic, sappia che quest’ultimo è di proprietà di Laurene Powell Jobs, vedova di Steve Jobs, fondatore di Apple; l’ancor più celebre New Yorker è controllato tramite Condé Nast dal gruppo Advance della famiglia Newhouse, che possiede anche Vogue, Vanity Fair, GQ e Allure. Certo, si potrebbe scegliere di abbandonare la stampa tradizionale e lamentarsi della concentrazione dei media su Reddit, ma in quel caso sarebbe bene sapere che anche quest’ultimo è del gruppo Advance. Meglio allora dirigersi sul periodico d’informazione di stampo progressista Mother Jones – sempre finanziato da Laurene Powell Jobs –, o meglio ancora sul mitico ProPublica, il primo sito di informazione a vincere un Premio Pulitzer nel 2010, che è invece di proprietà della famiglia di banchieri e finanzieri Sandler – e cofinanziato ancora da Powell Jobs.

Le conseguenze sulla qualità dell’informazione offerta da (per lo meno) alcune di queste testate – e sulla fiducia che gli americani hanno di loro – sono piuttosto evidenti: per quanto possano dichiararsi tutte come assolutamente indipendenti e libere di agire in piena autonomia, per quanto siano pronte a giurare che gli interessi dei loro proprietari non hanno alcun peso nelle decisioni editoriali, gli esempi che le cose non stanno proprio così sono evidenti.


Sarebbe sin troppo facile portare l’esempio di Fox News, uno dei network più palesemente schierati che siano mai esistiti, autentico megafono della destra repubblicana sin dalla sua nascita, già condannato dai tribunali americani per aver diffuso consapevolmente false informazioni in merito alle accuse di brogli elettorali durante le elezioni USA del 2020. Lo stesso vale per il New York Post, un quotidiano talmente pronto a farsi da portavoce della peggiore propaganda alt-right e amplificatore di ogni genere di teoria del complotto da far impallidire il “nostro” La Verità.

Si potrebbe ritenere, però, che queste siano le linee editoriali scelte liberamente da tali testate, che casualmente coincidono con quelle del proprietario.

Più difficile sostenerlo, però, nel caso del Wall Street Journal, considerato un tempo la bibbia del mondo finanziario USA e una delle voci più autorevoli dell’intero panorama statunitense. Da quando è stato acquistato da News Corp, le accuse di ingerenze da parte della proprietà sono state numerosissime. Particolarmente grave è uno degli episodi più recenti, cioè il licenziamento della corrispondente da Hong Kong Selina Cheng, “colpevole” di essere stata eletta presidente della HKJA, il sindacato dei giornalisti di Hong Kong che da sempre si batte per la libertà di stampa nella megalopoli e in Cina. Il Journal ha dichiarato che l’incarico di Cheng nel sindacato – che pure non sarebbe in contrasto con il codice etico del giornale – le impedirebbe di esercitare un ruolo di reporter indipendente, ma sono in molti negli USA ad aver visto in questa decisione il desiderio di proteggere i molti interessi di Murdoch in Cina e il suo rapporto “cordiale” con le autorità del Paese.


Se però Atene piange, Sparta non ride. Anche nel campo dei media di area più vicina ai democratici, infatti, il bias legato a proprietà ingombranti è tutt’altro che assente. Tanto la CNN quanto il Washington Post sono stati accusati, negli anni, di essere spudoratamente sbilanciati a favore dell’ala centrista dei dem, penalizzando quando non addirittura diffamando i candidati della sinistra, su tutti Bernie Sanders. Sono celebri le accuse che quest’ultimo muove ai grandi gruppi finanziari e ai miliardari USA, come le sue proposte di tassazione dei grandi patrimoni e di rottura di monopoli e oligopoli, che certo non sono gradite a mega-gruppi come Warner Bros e a multimiliardari come Bezos. Ha fatto ad esempio molto scalpore la copertura data dalla CNN alle primarie democratiche del 2020, che avevano visto proprio Sanders come il principale sfidante di Biden. Tra tutte, la diffusione nella primavera di quell’anno di una notizia rivelatasi palesemente falsa, secondo cui Sanders avrebbe fatto pressioni sulla candidata e alleata Elizabeth Warren perché questa si ritirasse, condendo la cosa di affermazioni misogine di vario tipo. Il fatto che il network abbia deciso di diffondere la notizia con un apposito lancio in diretta a poche ore da uno dei più importanti dibattiti tra i candidati a quelle primarie non può che ingigantire il sospetto di un attacco pilotato. Lo stesso Sanders non ha mai nascosto di ritersi un bersaglio da parte di questa ed altre testate, come appunto il Washington Post, che secondo il senatore lo avrebbe preso di mira per i suoi attacchi alle politiche del lavoro e al trattamento che Amazon riserva ai propri dipendenti. La dirigenza del quotidiano ovviamente ha sempre negato le accuse e si è più volte detta indignata da esse, ma l’osservatorio online sulla correttezza dei media Fair.org riporta come già dalla campagna del 2016 il Post abbia parlato quasi solo negativamente di Sanders, arrivando a pubblicare 16 pezzi contro di lui in un giorno solo, con titoli sparati e tesi al limite del ridicolo – citiamo ad esempio un pezzo in cui il giornale accusava di Sanders di mentire ai suoi elettori perché sosteneva che le donazioni alla sua campagna erano in media di 27 dollari a persona, quando erano in realtà ben 27 dollari e 89 centesimi; insomma, quel giornalismo d’inchiesta che ha reso il Washington Post celebre in tutto il mondo. Sempre Fair.org fa poi notare come la copertura delle notizie riguardanti Amazon e le altre proprietà di Bezos da parte del Post siano tutte in uno spettro che va dal neutro al positivo, spesso con pezzi scritti senza citare altre fonti se non quelle dell’azienda stessa, al punto da farne sembrare alcuni il copia/incolla dei comunicati stampa di Amazon.


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