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  • Immagine del redattoreDavide Serafin

Il futuro già passato di Mario Draghi

 


Le trecentoventotto pagine del rapporto “The future of European competitiveness” scritto da Mario Draghi per la Commissione europea nell’ambito della missione sul rafforzamento della competitività dei paesi membri, rappresentano - attraverso la spietatezza dei numeri - lo stato dell’Unione in termini schiettamente macro economici. Non c’è spazio per la speranza, a leggere del divario crescente in termini di competitività tra l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina, e forse un po’ ce ne eravamo accorti. Del resto, la crisi di sistema che ha colpito il continente fin dal 2010/2011 con l’attacco al debito sovrano e proseguita a fasi alterne sino al Covid-19, non ha trovato che deboli risposte temporanee da parte degli Stati membri, occupati più a sussidiare la spesa nel breve periodo che a investire e progettare il futuro.

Il rapporto di Draghi è così diviso in due sezioni. Esamina la realtà fattuale, attraverso i numeri dei parametri economici chiave e progetta soluzioni da mettere in campo con l’ausilio di svariati miliardi di euro, 800 all’anno per l’esattezza, attivati attraverso fondi pubblici e privati, venture capital, assicurazioni, fondi pensione e risparmi delle famiglie.


La prima è dedicata alle politiche di settore, in tutto dieci, tra le quali energia, materie prime critiche, digitalizzazione, reti a banda larga ad alta velocità/capacità, AI, semiconduttori, automotive, ma anche difesa e settore spaziale. In questa categorizzazione, che disegna un prospetto dell’Europa industriale mettendone in evidenza lo scarto tra la situazione attuale e gli obiettivi da raggiungere, trova spazio solo un modello votato allo sviluppo perpetuo ed estrattivo, che non tiene minimamente in considerazione il contesto della crisi climatica e la necessità impellente di una transizione verso un sistema destinato alla diffusione e al mantenimento del benessere collettivo. Pur riconoscendo la decarbonizzazione come obiettivo primario del piano, questa è inclusa solo per la capacità tecnologica di spezzare la dipendenza dai combustibili fossili e garantire prezzi energetici competitivi. Se la questione energetica è solo incidentalmente considerata all’interno del piano in relazione agli alti costi del chilowattora elettrico, l’alternativa da mettere in atto si basa essenzialmente su un mix di rinnovabili, nucleare, idrogeno e batterie. Draghi definisce anche una strategia di uscita dal gas metano con una fase intermedia volta a diversificare la catena di fornitura.


Ma tra gli obiettivi indicati, che dovrebbero essere sostanziati in primo luogo da iniezioni importanti di denaro pubblico, sono presenti anche il settore Difesa e armamenti. Nel testo è individuato il principale aspetto critico nella forte dipendenza degli Stati membri da soluzioni di difesa extra-UE, soprattutto dagli Stati Uniti. «Negli ultimi anni», è riportato, «si è assistito al ritorno della guerra nelle immediate vicinanze dell'UE, insieme all'emergere di nuovi tipi di minacce ibride, tra cui il bersaglio delle infrastrutture critiche e gli attacchi informatici. L'UE si trova ad affrontare una minaccia militare immediata e a lungo termine ai suoi confini (da parte della Russia), [...] e dovrà assumersi una crescente responsabilità per la propria difesa e sicurezza». Secondo Draghi gli obiettivi in ambito di difesa comune dovrebbero essere lo sviluppo di una base industriale e tecnologica di difesa dell'Unione «in modo che possa rispondere alle nuove esigenze [...] con le dimensioni, la velocità, la libertà d'azione e l'autonomia necessarie». Inevitabile il sostegno alla ricerca e sviluppo «per massimizzare le ricadute tecnologiche con altri settori (in entrambe le direzioni)». L’Europa avrebbe a quel punto l’opportunità di affrancarsi militarmente dallo scudo della NATO, un traguardo la cui audacia pone certamente il dubbio della realizzabilità anche nell’ipotesi del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Per sopperire alle minacce di disimpegno americano in Europa, Draghi suggerisce la messa in moto di un motore industriale a trazione bellica, una voragine di debito pubblico speso in strumenti di distruzione dislocati in uno scenario di relazioni internazionali instabile come una polveriera. È davvero questa l’Europa del futuro a cui dovremmo giungere? Un’Europa che spinge denaro nella direzione dei cannoni (europei)? Oppure, in questo quadro prettamente industriale, è possibile individuare un canone inverso, un’idea di sviluppo del benessere delle persone, di un rinnovato diritto alla dignità che integri cittadinanza, salute, clima e ambiente allo stesso tempo?


Non si evince nessuna utopia. L’Europa di Draghi è fedele alla logica dello sviluppo e della competitività a tutti i costi nella sola cornice industriale, che non si capisce come dovrebbe farsi “comune” quando i paesi membri, sino a questo momento, sono in competizione tra di loro. Una competizione che a tratti è scorretta e gioca sul detrimento della sfera del diritto del lavoro e delle fiscalità nazionali. In questo perpetuo gioco delle parti, nella dormienza delle istituzioni e delle principali famiglie politiche europee, il rapporto di Draghi si insinua come un coltello nella nebbia: pur essendo affilato, penetra nel silenzioso grigiore delle stanze di Bruxelles. Là dove i nostri rappresentanti dovrebbero decidere insieme, dove si dovrebbero definire politiche di reinsediamento industriale delle produzioni critiche (che Draghi giustamente sottolinea come interventi prioritari), subentrano logiche di parte, influenze critiche delle parti interessate le cui radici sprofondano dentro un gioco di scatole cinesi (o forse arabe).


Le politiche “orizzontali” della seconda sezione sono volte ad accrescere le competenze funzionali al sistema («le competenze tecnologiche»), ma il continente è in asfissia dal punto di vista morale ed etico da almeno quindici anni e necessita di innovazione a tutti i livelli, finanche politico. E sul punto, l’ex presidente della BCE si limita a sostenere il superamento del principio dell’unanimità in Consiglio, proposta che - seppur condivisibile - in un quadro politico caratterizzato dal rigurgito nazionalista, dal caudillo ungherese e dalla lunga mano della propaganda russa, purtroppo cadrà come foglia morta cade. In questo caso, la responsabilità dell’immobilismo è chiara. Risiede nella ignominia della politica europea, nel suo conservatorismo e pure nelle sue tentazioni distruttive, nella propagazione di massa di ideologie retrograde e antisistema.

Destino non dissimile avrà anche la proposta di attivare nuovo debito comune, come ai tempi di Next Generation Eu, a meno di non stabilire un maggiore ravvicinamento tra le politiche fiscali europee e creare una vera e propria politica fiscale comune, unica soluzione in grado di dare solidità al destino debitorio dei paesi membri, unico puntello che si potrebbe apporre a un bilancio europeo nutrito quasi solo di trasferimenti dalle fiscalità nazionali.


Perché allora spingersi tanto in là, prevedere un piano che mal sarà digerito dai governi, che probabilmente sarà tradotto in alcuni regolamenti smagriti dall’azione degli egoismi nazionali che confliggono nel Consiglio?

Perché non immaginare quel futuro a partire, per esempio, da misure di redistribuzione della ricchezza, o dalla lotta ai paradisi fiscali europei? Perché non focalizzarsi sulla crisi climatica e dichiarare l’emergenza a tutti i livelli? Perché gridare al declino, ma immaginare il rilancio a partire dall’Europa come potenza bellica? Perché questo futuro sembra già appartenere al passato?

L’Europa ha sì bisogno di una nuova utopia, o forse solo di soluzioni concrete e abbordabili.

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