Tenete duro, passerà in fretta: no, non la presidenza Trump, quella toccherà sorbirsela altri quattro lunghi anni. Lo sgomento di questi giorni, invece, avrà vita breve. Un po’ perché è così, che funziona il dolore, diventa un callo. O uccide, certo. Ma nel caso, meglio il callo, ruvido, brutto, però insensibile, al massimo prude un po’, ogni tanto. E poi perché nell’era dell’hype la coda della notte elettorale americana dura quel che dura, si può alimentare giusto per qualche settimana da qui all’insediamento di gennaio (niente sommosse stavolta, chissà come mai), con speculazioni su cosa l’uomo davvero abbia in mente di fare, sulle uscite tremende che certo non mancheranno, da parte sua e dei suoi, e ovviamente sulla sinistra che si interroga e viene presa per il culo, per la sua stupida ingenuità, da tutto il pianeta. Poi, la bestia dello scrolling avrà fame di altro, e Trump diventerà un elemento del paesaggio, da ritirare fuori ogni tanto per rimarcare con grande scandalo che esiste e fa cose.
Fa tutto parte di una cosa chiamata “processo di rimozione di un evento traumatico”, se ne occupa la psicanalisi fornendo una definizione perfetta - “un meccanismo difensivo che protegge dal ricordare aspetti penosi della propria vita, ma che allo stesso tempo condanna a riviverli nel presente senza mai superarli”- e pure la politica dovrebbe interessarsene, perché le riguarda molto da vicino: altrimenti non lo staremmo rivivendo otto anni dopo, l’“evento traumatico” che, appunto, avevamo completamente scordato. Vale anche per il rammarico espresso da tutti i leader progressisti del mondo, e dalle personalità di buon cuore sinceramente preoccupate, intellettuali, artisti, opinion makers, tutti a interrogarsi: dove abbiamo sbagliato? Forse nella debolezza intrinseca della cultura woke declinata solo sui social e mai in politiche sociali, o nel non saper spiegare la necessità di una transizione ecologica senza spaventare le persone, o ancora nell’insostenibile contraddizione di voler costruire una sinistra globale che si dice dalla parte dei lavoratori e però al tempo stesso ha l’ansia di dichiararsi sempre assolutamente pro-business, ci mancherebbe, e così via. O ancora, nel tenere separata l’economia e i suoi riflessi concreti dai temi personali, culturali, legati agli altri diritti, pur continuando a ribadire che vanno insieme, solo che a quanto pare il messaggio arriva a destinazione tronco (se arriva). Sono parole, parole, soltanto parole, anche quelle di questi giorni, il “disagio”, la “percezione”, le “periferie”, il “capitalismo”, la “redistribuzione”, tutte cose già dette e ridette, non è l’eco, è proprio la ripetizione di un rosario eterno, sgranato fino a consumarsi, che ottiene peraltro sempre gli stessi risultati, ogni volta con stupore misto a disappunto. Il che è indice di pazzia, come diceva Einstein, anche se francamente davvero non serviva Einstein per capirlo. Solo che poi passa.
Qualche simpatico matto, in rete, ha calcolato per quante volte Bill Murray rivive lo stesso giorno in Ricomincio da capo, il film del 1993, prima di riuscire a padroneggiarlo. Se lo era chiesto anche Harold Ramis, il regista, e aveva ipotizzato qualche anno, ma in effetti è molto di più: sono 12.395 giorni, pari a 33 anni e 350 giorni. La sinistra globale ha lo stesso problema, ma a differenza di Bill Murray rivive gli stessi avvenimenti senza imparare niente: come passa il tempo quando ci si diverte, verrebbe da dire, se non fosse che forse nessuno si sta divertendo. Sembra ieri, che si festeggiava la prima vittoria di Obama e veniva salutata come l’alba di una nuova era, e non solo siamo ancora al buio, ma non era affatto ieri, perché nel frattempo sono già passati 16 anni. Passati a sentir ripetere, a ogni turno, che bisogna salvare l’ambiente, che l’aborto è un diritto, che il razzismo è brutto, che i gay devono avere pari diritti, che il patriarcato va sconfitto, che i lavoratori devono avere salari dignitosi, e bla bla bla. Ma poi, quando è cambiato il vento, cosa è stato effettivamente realizzato? La Corte Suprema a maggioranza trumpiana ha cancellato il diritto all’aborto, cattivoni, certo: ma la sentenza Roe contro Wade che lo difendeva è del 1973, da allora i democratici hanno governato per sei mandati, 24 anni su 51, e non l’hanno mai trasformata in una legge federale. Promettevano di farlo stavolta, ciaone. In Italia, col centrosinistra al governo, abbiamo avuto i respingimenti in mare dei barconi e gli accordi con i Paesi canaglia perché non li facessero partire, i diritti concessi a metà, i medici obiettori di coscienza sempre al loro posto negli ospedali, il salario minimo rimasto lettera morta anche col plauso dei sindacati, nessuna parità salariale di genere, allegre cementificazioni e ogni tipo di bestialità a favore delle fonti fossili, e di certo non sono stati tassati di più i miliardari e le rendite, per carità, neanche a parlarne. Di quello, i leader a cui guardiamo, si ricordano solo il giorno dopo una sconfitta: coulda, shoulda, woulda, si dice dalle parti degli elettori di Trump. Come il tossico, che dopo l’ennesimo brutto trip si risveglia e si ripromette di non cascarci più. È un proposito che dura lo spazio di qualche giorno, poi si riprendono le vecchie abitudini, ma la pretesa surreale è quella di pensare che gli elettori debbano crederci, e di offendersi se non succede.
Ed è questo, in fondo, che brucia più della sconfitta: è il fatto di sentirsi rimproverare per le proprie idee, non solo perché qualcuno le giudica ridicole, ma perché c’è la consapevolezza che, quando c’è stata la possibilità di realizzarle, sono rimaste lettera morta. Ogni. Singola. Volta. Quindi si va avanti così, come la marmotta del film quando esce dalla tana dopo il letargo, e che l’inverno sia finito o meno non le importa, tanto in ogni caso tornerà a dormire, fino alla volta successiva.
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