Il Cremlino ha pubblicato sul proprio sito istituzionale la trascrizione integrale (nda: è venuto fuori che invece è redacted) della lunga - lunghissima - intervista di Tucker Carlson a Putin, e vale la pena leggerla invece di limitarsi ad ascoltarla per via dei molti “momenti WTF” in cui si è portati a rileggere per essere sicuri di aver capito bene. Carlson, che era stato cacciato persino da quel conventicolo di faziosità che è Fox News, dopo aver diffuso una serie di panzane che sono costate salatissimi risarcimenti, aveva probabilmente l’intenzione di portare a casa - oltre a uno scoop oggettivamente di portata planetaria, che molti dindi frutterà al suo network personale online - un supporto alle sue tesi bislacche sul Deep State o sulle altre follie che caratterizzano il dibattito politico USA, proprio a partire dalle vere ragioni della guerra in Ucraina e del sostegno americano agli occupati. Ne è uscito completamente inciuccato, probabilmente sorpreso dal fatto di trovarsi davanti un suo simile, solo un bel po’ più bravo a ottenere per sé stesso quello che gli altri vogliono da lui.
L’intervista è chilometrica ed è difficile, ma soprattutto inutile, cercare di riassumerla, alcuni passaggi sono subito diventati virali come quello in cui spiega che in realtà era stata la Polonia, e non la Germania, ad aver innescato la Seconda Guerra Mondiale, e per quanto gustosi non sono nemmeno così importanti: è l’insieme, che stordisce, e per rendere l’idea basti dire che alla prima domanda il leader russo attacca una risposta di mezz’ora in cui ricostruisce la storia della sua madrepatria nel corso degli ultimi 1200 anni, dai Rus in poi, con il processo di cristianizzazione di quelle vaste terre remote come elemento collante di un’identità che riverbera fino ad oggi. Tutto questo per arrivare a sostenere che l’Ucraina è russa, se non tutta certamente in parte, per credo, per lingua, per cultura, per tutte queste cose insieme. E questo è solo l’inizio della chiacchierata, la domanda di riscaldamento, quella per così dire “facile”.
Poi, più avanti, si passano in rassegna alcuni dei momenti cruciali della trasformazione geopolitica intercorsa dal crollo dell’Unione Sovietica in poi, infilando qua e là una serie di affermazioni che anche il lettore non diplomatico di carriera sa essere abbastanza campate per aria, o quantomeno viziate da omissis e da una versione molto di parte della storia. Si tratta, né più né meno, della riproposizione nemmeno troppo aggiornata del canone spionistico che ci ha appassionato per decenni: come lo Smiley di John le Carré, che interroga Karla e non solo non cava un ragno dal buco, ma alla fine si rende conto di avergli detto più di quanto gli ha carpito. E quindi chissà, forse in questo momento in qualche anonimo ufficio governativo c’è chi sta leggendo e rileggendo ogni singola parola alla ricerca di una chiave, un po’ come i gesuiti si consumavano gli occhi nel Russicum.
Una cosa, però, Putin ha tenuto a ribadire più volte, in stampatello: pensavano di poter sconfiggere la Russia, magari facilmente, e questo non succederà. E, alla fine, qualcuno dovrà aprire un dialogo e prendere atto della situazione. Questo argomento, che innervosisce molto i sostenitori degli aiuti all’Ucraina, in realtà non smonta nessuna delle loro ragioni: il leader di una superpotenza a un certo punto può decidere - di punto in bianco, come sembra visto da Occidente, o dopo molti precedenti, come sostiene lui - di invadere un Paese sovrano, certo vicino, certo culturalmente affine, ma comunque sovrano, e uscirne tenendosene un pezzo (quanto grande, chissà), e non c’è molto che possiamo fare al riguardo. Che è in effetti davvero una prospettiva terrificante, oltre che un precedente preoccupante. Ma questo non vuol dire che non sia vero. E combattere contro la realtà, beh, certo è possibile, ma è anche molto faticoso.
Trent’anni fa, giusto per aggiungere un pezzo alla ricostruzione putiniana, il mondo sembrava pronto a parlare di pace, di disarmo, di multilateralismo. Poi, qualcosa è andato tremendamente storto, e discuterne oggi risulta quasi impossibile. Eppure, anche i più convinti tra coloro che continuerebbero ancora a lungo a inviare armi sanno che lo scopo non è la mera distruzione, ma la costruzione di un nuovo accordo. Interessi particolari permettendo, purtroppo.
Ma se l’obbiettivo di tutti è la pace, o almeno così ci diciamo, è ben curioso che la strada per raggiungerla sia lastricata di guerre. Prima o poi va messo un punto, almeno ogni tanto.
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