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L'autonomia differenziata è legge: e adesso?



La Camera ha approvato definitivamente il disegno di legge sull'autonomia differenziata, con 172 sì, 99 no e un astenuto. Il testo, già approvato al Senato, è legge. Pubblichiamo di seguito un'anticipazione dell'articolo pubblicato sul nuovo numero di Ossigeno, dedicato appunto alle riforme costituzionali promosse dal Governo, a firma di Andrea Laerte Davide.


Il 2024 non è solo l’anno in cui la premier Meloni ha lanciato la riforma sul premierato. Quest’anno, infatti, è approdato in aula anche il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata. Un vero e proprio scambio politico, quello messo in piedi da Lega e Fratelli d’Italia: premierato in cambio dell’autonomia differenziata. Due cavalli di battaglia, a prima vista appartenenti a progetti di Paese completamente opposti, che la destra ha la pretesa di voler far convivere. Potremmo definirlo il modello Orbán che incontra il modello catalano o fiammingo. Una miscela potenzialmente esplosiva. A rischio c’è la tenuta della Repubblica così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi.


Per Meloni e Salvini significa realizzare quello che i loro predecessori non hanno mai avuto la forza o la capacità di portare a termine. Ma dove non è riuscito ad arrivare il centrodestra troppo spesso ha posto rimedio il centrosinistra, nel tentativo di accaparrarsi i voti altrui: decreto Minniti, accordi con la Libia, jobs act e così via. Lo stesso vale, ahinoi, per l’autonomia differenziata.

A fornire gli strumenti a Calderoli e alla Lega era stato proprio il centrosinistra, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione. A darle l’avvio fu il governo Prodi nel 1997, seguito dal governo D’Alema e infine dall’esecutivo Amato nel 2001. Con il primo referendum costituzionale della storia repubblicana, venne definitivamente approvata. La rincorsa ai voti del Nord ha lasciato in eredità una riforma con numerose ambiguità e una difficile interpretazione delle competenze tra i vari livelli, oltre ad aver aperto la strada alla riforma sempre sognata dalla Lega, fin da quando il suo simbolo recitava ancora “Nord”.

Senza essere riuscito a rispondere in maniera più efficiente ai bisogni della cittadinanza, il Titolo V è diventato il pilastro di un Paese dai diritti diseguali a livello territoriale, e non ha apportato benefici sostanziali. Come emerso fin da subito, assieme alle problematiche derivanti dalla ripartizione delle competenze previste dall’art.117, la più grande criticità insita nel Titolo V è rinchiusa nell’art.116, terzo comma, che prevede la possibilità di attribuire ulteriori forme di autonomia. Proprio sull’articolo 116, come è intuibile, si innesta il progetto dell’odierno DDL Calderoli.


I nuovi rapporti economico-finanziari tra Stato e autonomie territoriali, in risposta alla riforma costituzionale, trovarono la propria definizione con la legge 42 del 2009. Tale legge opera l’importante distinzione tra il finanziamento dei Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) e quello delle altre spese. Proprio sui LEP si basano tanti distinguo e rassicurazioni circa gli effetti dell’autonomia differenziata. I LEP riguardano i diritti civili e sociali fondamentali per i quali vanno calcolati i fabbisogni e le relative risorse economiche da stanziare per equipararle su tutto il Paese. Peccato che la legge 42 sia stata attuata solo in minima parte e i LEP abbiano cominciato a essere definiti su alcune materie solo a partire dal 2022. Non appena si è iniziato a calcolare il fabbisogno territoriale, infatti, ci si è resi immediatamente conto che in alcuni territori, specialmente del Mezzogiorno, esso era sensibilmente maggiore rispetto alla spesa storicamente effettuata, cioè il criterio con cui venivano ripartite le risorse. La spesa per i fondi di perequazione è di difficile quantificazione ma, per avere un’idea, l’investimento in asili nido per il raggiungimento del livello essenziale impegna quasi 5 miliardi di euro del PNRR. Moltiplicando questo dato per tutte le altre materie, è possibile immaginare che sia necessario l’equivalente di svariate leggi finanziarie.

Nel febbraio del 2018, con un colpo di coda a Camere già sciolte, il governo Gentiloni firma la pre-intesa con tre presidenti di Regione: Maroni, Zaia e, dulcis in fundo, Bonaccini. L’immagine dei tre governatori intenti a celebrare insieme la pre-intesa è la fotografia di un’ambiguità che faticherà ad abbandonare il centrosinistra.


Arriviamo a oggi e alle proposte parallele di premierato e autonomia. Il DDL Calderoli prevede la possibilità di trasferire alle Regioni competenze riguardanti ventitré materie, tra cui commercio estero, salute, cultura, scuola, energia, ambiente, trasporti e perfino il coordinamento della finanza pubblica. In base alla normativa, non diversamente da quanto fatto a partire nel 2018, la richiesta delle competenze avviene su iniziativa regionale cui fa seguito un’intesa Stato-Regione. La definizione degli aspetti tecnici spetta a una commissione paritetica Stato-Regione, poi recepita tramite DPCM. Il Parlamento sarebbe completamente esautorato dalle sue funzioni. Questa autonomia à la carte porterebbe a un Paese arlecchinesco, come definito da più commentatori, con quattro Regioni ad autonomia speciale, due Province autonome e le restanti Regioni ad autonomia differenziata. Un caos amministrativo dalle conseguenze nefaste.

In un Paese con differenze regionali già enormi, questa riforma sancirebbe l’allargamento dei divari territoriali. Conosciamo gli effetti futuri perché abbiamo avuto modo di osservarli in quella che fino a ora è stata la competenza più importante trasferita alle Regioni: la sanità. Le differenze nelle prestazioni sanitarie tra Nord e Sud sono sotto gli occhi di tutti. Differenze che hanno creato il fenomeno della migrazione sanitaria che rappresenta una doppia sconfitta per la Regione svantaggiata: oltre a non riuscire a soddisfare il proprio cittadino, è costretta anche a risarcire economicamente la Regione che effettua la prestazione. Ma la questione non investe solo i diritti dei cittadini del Sud. Nella pre-intesa siglata dalla Lombardia nel 2018 è scritto nero su bianco che le maggiori competenze in materia sanitaria permetterebbero la crescita della sanità privata in una sana concorrenza con quella pubblica. Ecco, quindi, uno dei rischi potenziali dell’autonomia differenziata: un attacco ai diritti dei cittadini con un’ulteriore privatizzazione dei servizi fondamentali.


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