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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

L’importanza delle inchieste



È impossibile, soprattutto in questo momento storico, occuparsi dello stato dell’informazione in Italia senza citare l’inchiesta giornalistica realizzata da Fanpage tra i militanti di Gioventù Nazionale, la giovanile di Fratelli d’Italia e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Non è il primo scoop di questo tipo, per la testata diretta da Francesco Cancellato: già tre anni fa c’era stata “Lobby nera”, non meno clamorosa, anche se si ha la sensazione che con “Gioventù meloniana” sia saltato una sorta di tappo, forse anche per via del fatto che, nel frattempo, quel partito ha vinto le elezioni e ora governa il Paese. Quella volta c’era stato anche un seguito giudiziario, con indagini poi chiuse poiché non erano stati trovati “elementi in grado di confermare quanto emerso”, e qualcuno ne aveva approfittato per liquidare l’intera faccenda. Sbagliando, perché il valore informativo invece resta, ed è di assoluto interesse pubblico, rispettando quindi i criteri più importanti che dovrebbero stare alla base della pubblicazione di una notizia. Dopo la tempesta suscitata, la testata ha pubblicato un pezzo, firmato da Ciro Pellegrino, intitolato “Fanpage e il suo metodo d’inchiesta, necessario per smascherare le ipocrisie”, in cui si legge tra le altre cose di metodo, ma anche di necessità, di diritto insopprimibile all’informazione, così come è protetta dall’articolo 21 della Costituzione. E di costi, pure, perché fare inchieste costa, molto, richiede tempi lunghi, non sempre porta a risultati, ed è rischioso, talvolta, in senso letterale. Infatti, o almeno questa è la vulgata, non le fa più nessuno, anche con la scusa dell’instant journalism e di tutto ciò che ha comportato l’avvento dei nuovi media. Proprio da questa provocazione siamo partiti nella conversazione con Cancellato.


Dicevamo: le inchieste non le fa più nessuno.

«Be’, noi le facciamo. È un mercato stretto: di inchieste se ne fanno tante, ma quelle che si guadagnano una vetrina, per mille ragioni, perché impattano su un tema particolarmente rilevante, perché fanno vedere le cose anziché raccontarle con la parola scritta, come nel nostro caso, o succedono in un momento che le rende d’attualità, e questo appartiene al “come”, più che al “cosa”. Credo che il nostro sia stato un lavoro d’inchiesta importante, come altri hanno fatto a loro volta, beneficiando di un metodo di costruzione, di una modalità di esposizione che sicuramente lo rende molto visibile, che è quella video, e anche di un momento estremamente favorevole. Diciamo che in qualche modo si sono allineati i pianeti, e questo ci ha consentito di guadagnarci il centro della scena. Però non me la sentirei di dire né che il giornalismo di questo tipo in Italia non esiste, farei anche un torto a tanti bravissimi colleghi, e nemmeno che il pubblico non veda le cose».


A proposito di modalità, è interessante che, come già avevate fatto in passato, l’uscita sia stata organizzata in parallelo tra testata online e televisione, con la collaborazione di Piazzapulita su La7. 

«Il nostro tentativo, che pian piano stiamo cercando di far crescere, è quello di essere crossmediali. Avere quindi un’inchiesta video, che abbia anche una parte testuale, che poi venga ripresa dagli altri giornali, che vada in tv, che diventi un podcast, e chissà cos’altro. In questo caso è diventato pure un evento, e una newsletter, perché Rumore è stata fatta nascere proprio partendo da questa esperienza. Il rapporto con Piazzapulita, iniziato con “Lobby nera”, come spesso accade è nato in modo un po’ casuale: avevamo una bella inchiesta, e abbiamo provato con Corrado Formigli a sperimentare una doppia première, con presentazione contemporanea in onda e online sul nostro sito, anche scommettendo che fossero pubblici differenti, e che uno potesse fare da riverbero all’altro. Ha funzionato, indubbiamente funziona, soprattutto con le inchieste politiche o comunque legate alla politica è un acceleratore importante. Anche se, ripeto, è una cosa molto empirica: Fanpage è sempre stata una realtà che non si limita a produrre contenuti ma pone grandissima attenzione anche sulla loro distribuzione. Prima su Facebook, poi su Google, poi su Instagram, poi su TikTok, ovviamente facendo caso a come e a dove ci si presenta al pubblico, cosa che è connaturata al nostro modo di fare il giornale. Solo che era circoscritta all’online, non eravamo mai usciti da quelli che sono i recinti SEO e social. Con la televisione e gli eventi abbiamo invece provato a venirne fuori, e i risultati sono stati buoni. Questa è la teoria, la pratica è che abbiamo provato con Formigli, ci è andata bene e da lì è nata una collaborazione che prosegue perché c’è sintonia».


Forse questa può essere anche una delle possibili risposte alla crisi dell’informazione di cui si discute da tempo, crisi dei modelli di business, disallineamento tra vecchi e nuovi media e via discorrendo. Dopo che l’avete fatto voi, viene da chiedersi perché non ci abbiano pensato altri, specie considerando che esistono grandi gruppi che potrebbero organizzare questo genere di sinergie del tutto internamente.

«Non lo so perché non lo fanno gli altri, andrebbe chiesto a loro. Dal mio punto di vista, e al netto del modello di business che è un affare che riguarda il mio editore, il centro del mio interesse è quello di far sì che il contenuto raggiunga il pubblico. E per farlo bisogna anche un po’ pensare “fuori dalla scatola”, avere delle intuizioni, fidarsi di qualcuno, rischiare un pochino, e non aver paura che quel contenuto diventi un po’ di tutti, che non sia più solo di propria esclusiva, che ci sia gente che lo vede anche al di fuori di Fanpage. Banalmente, se un milione di persone lo vedono su Piazzapulita, qualcuno potrebbe dire che sono un milione di click che sono stati persi da Fanpage. Oppure, si può concludere che si tratti di un milione di persone che comunque su Fanpage non ci sarebbero andate e quindi si è allargata la potenza di tiro di quel contenuto. Portando all’estremo questo concetto, noi abbiamo rilasciato a partire dalla seconda puntata tutta l’inchiesta “Gioventù meloniana” come Creative Commons. Mentre parliamo, nell’ultima settimana ci sono state cinque proiezioni pubbliche in giro per l’Italia: sono tutte occasioni in cui noi non guadagniamo niente, chi le organizza si scarica il video e lo proietta su un maxischermo davanti a un pubblico, ma il nostro interesse è che quello che abbiamo realizzato sia visto da più persone possibili. Indipendentemente dal modello di business, il senso era quello di far sì che un contenuto che era passato con grandi timidezze sui network televisivi nazionali classici, mentre online, su Instagram, era stato visto da una decina di milioni di persone, avesse una cassa di risonanza sempre maggiore. Io non so quali possano essere le motivazioni di altri a non tentare così tanto sulla disseminazione dei contenuti, avranno le loro ragioni. Noi in generale, e in particolare in questo momento, abbiamo la necessità che vengano visti da tutti, per questo non solo non li mettiamo dietro un paywall ma li rendiamo disponibili».


Una curiosità: l’impressione è che le altre testate abbiano dato molto più spazio all’inchiesta dopo la seconda puntata che non dopo la prima. Non che fosse assente, ma sembrava faticare a trovare spazio, specie nei primi giorni, mentre dopo la seconda è sembrato venire giù un argine. 

«Secondo me, banalmente, dopo la prima puntata nessuno di Fratelli d’Italia aveva risposto. Sì, c’era stata la battuta di Gasparri sulla Casertana, ma non c’era la risposta di Giorgia Meloni. Non essendoci la sua replica, gli altri giornali, come dire, non erano obbligati a riprenderci. Che poi è il motivo per cui è stata zitta, a mio parere, lei come i vertici del suo partito: qualunque cosa avessero detto, avrebbero fatto guadagnare all’inchiesta le prime pagine, è il classico caso in cui la risposta fa da megafono. Dopo la seconda puntata, però, c’è stato il caso Ester Mieli, in riferimento all’antisemitismo: non so cosa sia successo dentro Fratelli d’Italia, ma la sensazione è che prima Donzelli e poi Meloni siano stati letteralmente obbligati dalle circostanze a dire qualcosa. E l’hanno fatto in un modo – un po’ come quando Meloni aveva chiesto le cento ore di girato – che ha amplificato il volume dell’inchiesta. Quando dico però che le cose si specchiano, alle spalle di questa reazione c’erano comunque più di dieci milioni di persone che quella puntata l’avevano vista, e avevano anche sentito il silenzio della stampa e dei telegiornali, specialmente quelli Rai e Mediaset, mentre l’inchiesta veniva ripresa dal Times, dal Guardian, all’estero, creando un cortocircuito: perché prima è uscita la notizia che Gioventù nazionale ha un problema col neofascismo, poi un’altra, cioè che la stampa nazionale è un po’ timida quando si tratta di parlare di cose imbarazzanti per l’attuale maggioranza, e poi che c’è una questione legata all’antisemitismo dentro Fratelli d’Italia. Alla terza, diciamo, l’argine crolla, e infatti è crollato».


Venendo al “come”, appunto: come si costruisce un’inchiesta di questo tipo, e cosa serve a un giornalista per calarsi in quei panni, che peraltro possono essere anche rischiosi?

«Non è più rischioso di firmare un pezzo, secondo me. È rischiosa l’infiltrazione, ovviamente, ci vuole tanto coraggio e molto mestiere, per fare un’operazione di questo tipo, molto sangue freddo, e un team in grado di gestire le cose, con prudenza e senza mettere il collega o la collega in condizioni rischiose. Non è una cosa che si improvvisa dalla sera alla mattina, vale il detto “non provate a rifarlo a casa”. Detto questo, quando l’hai fatto e quando esce non è più pericoloso di firmare un pezzo col proprio nome e cognome in cui si dicono le stesse cose: tira una brutta aria intorno ai giornalisti, indipendentemente dal fatto che facciano o meno il loro lavoro sotto copertura. Ci vuole coraggio a fare i giornalisti, oggi, non è l’infiltrazione la linea che discrimina chi è coraggioso e chi no. E, dicevo, di certo ci vuole anche tanto mestiere: non è la prima inchiesta di questo genere che facciamo, ci siamo specializzati in questo tipo di contenuti, li sappiamo fare».


Quanto è durata tutta l’operazione (senza svelare dettagli che è meglio tenere riservati) dal momento in cui l’avete pensata a quando è stata pubblicata?

«L’idea ce l’avevamo in testa da un bel po’: il fatto che ci fosse un problema con i giovani all’interno di Fratelli d’Italia ha una sua letteratura, non siamo stati i primi a dirlo. Però ci piaceva l’idea di farlo vedere. Dal momento in cui l’operazione è partita, qualche mese è passato, per la nostra collega all’interno dell’organizzazione. Di più preferirei non dire».


Un’obiezione da avvocato del diavolo: nella lavorazione del materiale, vi è mai venuto qualche scrupolo sul peso effettivo delle cose che avevate registrato, che poi è stato anche uno degli argomenti di difesa, del genere “sono ragazzi”?

«No. Questo è il compito di ogni giornalista: capire la rilevanza di quel che si ha di fronte. Primo, non erano ragazzi, erano quadri di un’organizzazione giovanile che è la più grande d’Italia, diretta emanazione del primo partito del Paese, che peraltro al momento esprime la presidente del Consiglio. Secondo, non è una situazione episodica, ma sistemica. Terzo, quella è l’organizzazione che storicamente forma i quadri del partito, suoi ex “capi” sono stati Meloni, Fidanza, successivamente Perissa, Roscani… la stessa Flaminia Pace sarebbe stata una delle candidate di punta alle prossime amministrative del Comune di Roma, se non ci fosse stata questa inchiesta. Quando un partito non solo è sulla cresta dell’onda, e non esprime solo la classe dirigente di oggi, ma anche quella di domani, quello che noi abbiamo visto e riscontrato risulta rilevante e di interesse pubblico».


Tra l’altro, chi conosce gli attuali massimi dirigenti di FdI da prima che diventassero esponenti di spicco della politica nazionale certe dinamiche le aveva già osservate, identiche.

«Stiamo parlando di un partito che è cresciuto dal 3 al 30 per cento in pochissimi anni, che era identitario, che era uscito dal Popolo delle Libertà per rifondare un certo tipo di destra, e che si è ritrovato improvvisamente al governo, chiamato a fare scelte in campo internazionale, in un determinato contesto, anche con estremo pragmatismo, pensando agli interessi del Paese, e ha sviluppato un doppio registro: uno interno, con un’identità politica ben precisa che possono esprimere tra di loro, e uno esterno dove per ragioni di realpolitik o di propaganda, o perché hanno preso una buona parte di elettorato che quelle posizioni non le approverebbe, non le capirebbe, le dissimulano. A me questa cosa sembra estremamente evidente, ma che nel complesso questo problema ci sia, come dire, è dura negarlo».


Cosa che da un lato ha fatto la loro fortuna, ma (come abbiamo visto accadere dopo le Europee, ad esempio) può anche risultare dannosa.

«È come col gatto di Schrödinger: non è possibile essere contemporaneamente fascisti e antifascisti. Anche questa categoria dell’“afascismo”, ovvero di non essere né una cosa né l’altra, dopo un po’ non regge. O sei Le Pen o sei Merkel, è dura essere entrambe le cose».


l'intervista è tratta dal numero 17 di Ossigeno - Censura!, disponibile sullo store di People

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