top of page
Immagine del redattoregiuseppe civati

L’Innominato ovvero vi dicono che le ideologie non esistono più e invece ce n’è una, e una soltanto


Il capitalismo è l’Innominato di questa storia. Anzi, della nostra storia. Lo descrivono così George Monbiot e Peter Hutchison in The Invisible Doctrine. The Secret History of Neoliberalism (& How It Came to Control Your Life), Allen Lane 2024.

 

Il libro inizia così:

 

«Immaginate se la gente dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare di comunismo. È più o meno la situazione in cui ci troviamo oggi. L’ideologia dominante dei nostri tempi, che influenza quasi ogni aspetto della nostra vita, per la maggior parte di noi non ha un nome. Se la menzioni, è probabile che la gente si distragga o risponda con una scrollata di spalle sconcertata: “Cosa intendi dire? Che cosa significa?” Anche coloro che hanno sentito la parola hanno difficoltà a definirla. Il suo anonimato è sia un sintomo sia una causa del suo potere. 

Ha causato – o contribuito a creare – la maggior parte delle crisi che ora ci troviamo ad affrontare: crescente disuguaglianza; povertà infantile dilagante; malattie epidemiche della disperazione; delocalizzazione ed erosione della base imponibile; il lento degrado dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione e di altri servizi pubblici; il crollo delle infrastrutture; il regresso democratico; il crollo finanziario del 2008; l’ascesa di demagoghi moderni, come Viktor Orbán, Narendra Modi, Donald Trump, Boris Johnson e Jair Bolsonaro; le nostre crisi ecologiche e i disastri ambientali.

Rispondiamo a queste situazioni difficili come se si verificassero in modo isolato. Si verificano crisi dopo crisi, ma non riusciamo a comprenderne le radici comuni. Non riusciamo a riconoscere che tutti questi disastri derivano o sono esacerbati dalla stessa ideologia coerente, un’ideologia che ha, o almeno aveva, un nome.

Neoliberismo. Sai cos’è?

Il neoliberismo è diventato così pervasivo che non lo riconosciamo nemmeno più come un’ideologia. Lo vediamo come una specie di "legge naturale", come la selezione darwiniana, la termodinamica o persino la gravità, un fatto immutabile, una realtà non negoziabile. Quale potere più grande può esserci che agire senza nome?

Ma il neoliberismo non è né inevitabile né immutabile. Al contrario, è stato concepito e promosso come un mezzo deliberato per cambiare la natura del potere.»

 

La critica dei due autori, che godono di grande attenzione nel mondo anglosassone, si diffonde per tutto il pamphlet, anche con qualche riferimento storico che non può non farci riflettere. Come la vicenda dell’isola di Madera (Madeira in portoghese), una sorta di isola di Pasqua atlantica. E colonialista. Secoli dopo – curiosità – avrebbe dato i natali (poverissimi) al giocatore di calcio più ricco del pianeta, Cristiano Ronaldo.

 

Sostengono i due autori che è difficile capire quando sia precisamente nato il capitalismo, ma azzardano un momento e un luogo precisi, ovvero l’isola di Madeira, 320 miglia al largo della costa occidentale del Nord Africa, al momento della colonizzazione dei portoghesi nel 1420. L’isola era totalmente disabitata, era una terra di nessuno e, insomma, una tabula rasa, anche se tale divenne soltanto dopo l’intervento dei colonizzatori. Sì, perché i portoghesi si industriarono subito per prelevare dall’isola la materia da cui prende il nome: il legno, che in portoghese è appunto madeira

Il Portogallo ne aveva bisogno perché in patria era quasi esaurito e al Portogallo serviva soprattutto per le navi con cui andare alla scoperta – e alla conquista – del globo. Le zone deforestate furono poi utilizzati come pascoli per bovini e suini. Tutto ciò proseguì per cinquant’anni, finché i portoghesi non scoprirono che era possibile coltivarvi la canna da zucchero. Fu quello il punto di non ritorno:

 

«Fino a quel momento, l’economia era rimasta, almeno in parte, integrata in strutture religiose, etiche e sociali. Terra, lavoro e denaro tendevano a possedere significati sociali che si estendevano oltre il valore che se ne poteva ricavare. Nell’Europa medievale, ad esempio, le economie feudali – sebbene altamente oppressive – erano fortemente legate sia alla Chiesa che a un sistema sociale codificato di obblighi reciproci tra i grandi proprietari terrieri e i loro servi o vassalli.»

 

Come ha sostenuto il geografo Jason Moore, a Madeira «si sviluppò una forma di organizzazione economica che era per certi aspetti diversa da qualsiasi cosa fosse avvenuta prima. Su quest’isola appena scoperta, le tre componenti cruciali dell’economia – terra, lavoro e denaro – furono staccate da qualsiasi contesto culturale più ampio e trasformate in merci: prodotti il ​​cui significato poteva essere ridotto a numeri in un libro mastro.»

 

I coloni importarono manodopera sotto forma di schiavi, prima dalle Isole Canarie, 300 miglia a sud, e poi dall’Africa. Il denaro proveniva dai banchieri genovesi e delle Fiandre. 

 

Ovviamente, con il lavoro degli schiavi, l’efficienza della produzione era altissima. Ma era destinata a crollare di lì a poco (e qui c’è qualcosa che fa pensare davvero all’isola di Pasqua e della sua fine). Il picco fu raggiunto nel 1506, poi crollò: vent’anni dopo la produzione era precipitata dell’80%. L’isola di Madeira, l’isola del legname, aveva finito il legname: «L’accessione delle caldaie necessarie per raffinare e lavorare un chilogrammo di zucchero richiedeva 6o chilogrammi di legno. I lavoratori schiavi dovettero viaggiare sempre più lontano per trovare questo legno, estraendolo da parti sempre più ripide e remote dell’isola. In altre parole, era necessario più lavoro per produrre la stessa quantità di zucchero.»

 

La soluzione fu tutto sommato molto semplice: i portoghesi fecero «quello che i capitalisti di tutto il mondo avrebbero fatto. Se ne andarono.» Si trasferirono dapprima su un’altra isola più a sud, São Tomé, a 190 miglia al largo della costa occidentale dell’Africa centrale. E poi, ancora, in Brasile, dove la storia arriva fino a noi (vedi alla voce deforestazione dell’Amazzonia).

 

«“Boom, Bust, Quit” è ciò che fa il capitalismo. Le crisi ecologiche che provoca, le crisi sociali che provoca, le crisi di produttività che provoca non sono risultati perversi del sistema. Sono il sistema.»

 

In breve tempo, il Portogallo fu soppiantato da altre nazioni e l’Inghilterra divenne rapidamente la potenza coloniale dominante: «La grande e ineguale ricchezza del Regno Unito è stata costruita sui furti coloniali in Irlanda, nelle Americhe, in Africa, India, Australia e altrove. Una stima suggerisce che, nel corso di 200 anni, la Gran Bretagna ha estratto dalla sola India una quantità di ricchezza equivalente a 45.000 miliardi di dollari in moneta odierna

 

Qui potrebbe fare al caso nostro una rilettura di Anarchia di William Dalrymple (Adelphi, Milano 2022). Il titolo – meraviglioso – è dedicato alle imprese di quella che è definita «un’audace start-up londinese» che mosse, quattrocento anni fa, da un piccolo ufficio nel cuore della City, con soli 35 dipendenti, alla conquista del mondo: la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle prime Società per Azioni. Sarete felici di sapere che oltre alle sue attività commerciali, la Compagnia aveva una licenza militare, per poter operare. E fu proprio attraverso la Compagnia che la Corona inglese riuscì a imporre la propria egemonia a livello mondiale, arrivando a conquistare l’India, che divenne la porzione più grande del suo sconfinato impero.

 

«Il capitalismo è un sistema economico fondato sul saccheggio coloniale. Opera su una frontiera in continuo cambiamento e autoconsumo, su cui sia lo Stato che i potenti interessi privati ​​usano le loro leggi, sostenuti dalla minaccia della violenza, per trasformare le risorse condivise in proprietà esclusiva e per trasformare la ricchezza naturale, il lavoro e il denaro in merci che possono essere accumulate.»

 

E ciò è in continua crescita, soprattutto per quanto riguarda la concentrazione del potere e della ricchezza in una vera e propria oligarchia.

 

Siamo abituati a chiamarli oligarchi solo se sono russi, ma ne troviamo in ogni landa del pianeta. Gli interessi dell’oligarca si trovano «in mare aperto», nei paradisi fiscali, in isole del tesoro non più grandi di Madeira e nelle cassette di sicurezza dei caveau più protetti anche nel cuore dell’Europa. Paradossalmente – ed è uno dei tanti paradossi di questa storia, a cominciare da quello che più si tifa per il mercato più, in verità, si consolida la rendita –, questi interessi sono serviti da politici che promuovono un’agenda nazionalista e nativista. Lo sappiamo bene anche noi, i politici che si dichiarano patrioti difensori della sovranità sono i primi a svendere i propri paesi: «Non è un caso che i giornali e le stazioni televisive che tuonano all’infinito sugli immigrati e sulla sovranità tendono ad essere di proprietà di esuli fiscali miliardari che vivono all’estero.»

 

Poiché la vita economica è stata «off-shored», sostengono Monbiot e Hutchison, così è successo anche alla politica e alla sua “vita”. Le regole create per impedire al denaro straniero di finanziare le elezioni nazionali sono, in gran parte, crollate. Allo stesso tempo, il potere viene sottratto agli stati nazionali, sempre più impoveriti e esposti alle iniziative degli avventurieri.

 

Il circolo è tanto vizioso quanto perfetto. Gli autori lo rappresentano così:

 

«Oligarchi e corporazioni spesso finanziano segretamente (ad esempio usando “denaro sporco”) think tank e dipartimenti accademici.

Queste istituzioni, a loro volta, fanno sembrare ragionevoli e normali le richieste irragionevoli degli oligarchi e delle corporazioni.

La stampa, anch’essa ampiamente controllata dagli oligarchi, presenta queste proposte politiche come intuizioni critiche e importanti di organizzazioni indipendenti, creando l’impressione che persone in luoghi diversi giungano spontaneamente alle stesse conclusioni sulla base di ricerche solide e disinteressate.

I politici pagati dagli oligarchi e dalle corporazioni o che simpatizzano con loro citano la copertura della stampa come prova delle richieste delle persone.

La voce degli oligarchi è così interpretata come la voce del popolo

 

Viene alla mente una citazione famosa. Eccola:

 

«Nell’aprile del 1938, il presidente Franklin Roosevelt inviò al Congresso degli Stati Uniti questo monito: la libertà di una democrazia non è sicura se le persone tollerano la crescita del potere privato fino al punto in cui diventa più forte del loro stesso Stato democratico. Questo, nella sua essenza, è fascismo

 

Un avvertimento che faremmo bene a ricordare.



Socialismo tascabile è un reading e un libro di Giuseppe Civati, e anche una newsletter settimanale per i lettori di Ossigeno. Puoi acquistare il libro a questo link: https://www.peoplepub.it/pagina-prodotto/socialismo-tascabile

Comments


bottom of page