Ecco la terza parte dell'inchiesta sulla mafia nigeriana - e sul suo uso politico - del giornalista Lorenzo D'Agostino, che ringraziamo ancora una volta per aver condiviso con noi questo straordinario lavoro.
La prima parte la trovate qui. La seconda qui.
Novembre 2018. La rivista de Il Fatto Quotidiano ha un'esclusiva: i verbali del primo pentito. Il virgolettato-rigorosamente inventato-dice: "Sono il Buscetta della mafia nigeriana e vi racconto come stiamo conquistando il mondo".
Due anni prima a Palermo Austin Johnbull, "il Buscetta nero", ha iniziato a collaborare con gli inquirenti. L'esclusiva del Fatto Quotidiano arriva quando il processo è iniziato da 9 mesi, e per la procura sta andando molto male. Vediamo che è successo.
Il 26 gennaio 2014, nel quartiere palermitano di Ballarò, un giovane nigeriano di nome Don Emeka è vittima di un'aggressione da parte di un gruppetto di connazionali che lo lascia sfregiato a vita. Tra gli aggressori c'è Austin Johnbull.
Johnbull ha una piccola cricca di delinquenti occasionali che litigano con Emeka per le ragioni più futili. L'ultima volta, per ripicca, Emeka ha distrutto il condizionatore del bar di Johnbull a Ballarò, scatenando la brutale rappresaglia. Questa volta Emeka ne ha abbastanza: denuncia Johnbull alla polizia, e lo definisce "un black axe". Per spiegare il significato di quest'espressione fa un paragone che finirà per constargli la vita: "In Italia si chiamano persone mafiose, da noi black axe”.
Emeka non sa davvero cosa sia la mafia: tutto indica che usa l'espressione per dire delinquentelli, rissosi. Ma la procura lo prende alla lettera. Intanto Johnbull, da buon mafioso, si costituisce, senza sapere cosa lo aspetta. La polizia lo interroga senza avvocato e interprete.
Un anno dopo Johnbull è ancora in carcere in custodia cautelare. Le intercettazioni dei suoi colloqui con la moglie Jovita lo mostrano pentito per quella che lui vede come una rissa da bar finita male. Sarà condannato per tentato omicidio, aggravato dal metodo mafioso.
Vi interesserà sapere che l'aggravante mafiosa può sussistere anche in assenza di associazione mafiosa: basta che "la violenza o la minaccia richiamino alla mente ed alla sensibilità" della vittima "la forza intimidatrice tipicamente mafiosa".
Johnbull si becca 12 anni e 4 mesi.
Iniziano subito le pressioni degli inquirenti che, dopo averlo fatto condannare a + di 12 anni di carcere, gli vanno a dire che la condanna è ingiusta. Johnbull racconta tutto a Jovita: se lui aiuta loro, gli hanno detto, loro aiuteranno lui. "Fallo per il bene dei tuoi figli”...
Gli inquirenti fanno a Johnbull ogni tipo di promessa: "cambiamo la tua vita", "ti sistemo la tua famiglia". Johnbull, da parte sua, deve cambiare avvocato e parlare della "organizzazione" criminale black axe.
Johnbull non ci mette molto a convincersi a collaborare, perché la sua vita in carcere è un inferno. "Dove sono ora è la morte", dice, intercettato, alla moglie Jovita. "Qui picchiano le persone. Appena gli rispondi male, ti chiamano fuori dalla cella e ti picchiano”.
Il 9 settembre 2016 Johnbull prende carta e penna e scrive all'agente della squadra mobile Gaetano Amorelli. La lettera, pubblicata qui per la prima volta, è incredibile: "Se mi aiuti come vi promete io sono a vostro disposissioni per tutti cosa come voie. CIAO GAETANO MORELLI”.
Fin qui siamo nell'ordinaria amministrazione: i pentimenti a botte di sentenze draconiane, pestaggi in carcere e promesse degli inquirenti sono, pare, il funzionamento fisiologico del sistema. Il tribunale non ci vede niente di anomalo. Ma con Johnbull si va molto oltre...
Come dimostra la lettera inviata ad Amorelli, Johnbull non solo si dice disposto a collaborare, ma organizza il "pentimento" delle due persone che insieme a lui avevano aggredito Don Emeka: Emetuwa Vitanus e Inofogha Nosa. "Decide" pure chi fa il pentito e chi fa il testimone!
Non solo: pur avendo concordato il "pentimento" fin dall'inizio, Nosa inizia la sua collaborazione un anno più tardi, e solo dopo aver letto l'ordinanza di fermo contenente le dichiarazioni di Johnbull: le dichiarazioni a cui lui era chiamato a fornire un riscontro “esterno".
Questa è la genesi della collaborazione con la giustizia del "Buscetta nero". Ma in cosa consistono le sue rivelazioni? La tesi centrale è questa: il suo gruppetto di delinquenti sarebbe in realtà un'articolazione dell'associazione mafiosa Black Axe.
Il Black Axe, in Italia, opererebbe attraverso un'associazione di facciata chiamata "NBM Izodua Cultural Heritage" collegata a una casa madre, il Neo-black movement of Africa. Johnbull descrive gli organi di quest'associazione come una gerarchia mafiosa, con un "capo dei capi".
In generale, quello che colpisce nelle rivelazioni di Johnbull e di altri "pentiti" sulla "mafia nigeriana" è l'aderenza al dettato dell'articolo 416 bis del nostro codice penale, e l'uso di espressioni ("capo dei capi") che possono solo aver appreso da fonti italiane.
Sembra quasi che gli inquirenti spieghino ai pentiti quello che hanno bisogno di ascoltare per costruire un caso di mafia. E infatti... "Questo è il capo nuovo di Black Axe", dice un pentito. Come lo sai? Chiede il PM. "Uno di voi mi ha fatto vedere, io non lo so..."
Lo stesso succede a Torino nel processo Maphite: il pentito Omoregie dice non aver mai visto quello che lui stesso ha indicato come boss mafioso - tale Cesar - "fare niente di criminale": "Finché non è stato arrestato non sapeva che l’organizzazione di MAPHITE era mafia".
Ma torniamo a NBM Izodua Cultural Heritage: la presunta facciata del Black Axe è un'associazione registrata con una lista di membri pubblica, e pure una tessera di affiliazione. La polizia arresta tutto il suo direttivo senza neanche bisogno di fare indagini.
Il presidente, detto Sixco, ha passato mezza vita a fare l'operaio in provincia di Verona, dove nel tempo libero organizza eventi culturali e feste per la comunità nigeriana. Uno di questi eventi finisce nel mirino degli inquirenti.
Tra il 6 e il 7 luglio 2013 l'NBM di Sixco ha organizzato una festa per l'anniversario della FESTAC 77, un grande evento panafricanista tenutosi a Lagos nel 1977. Nel racconto di Johnbull, quella notte si è tenuto in realtà un rito di iniziazione mafioso.
La storia però non è credibile perché alla festa c'erano donne, bambini, e anche tanti italiani. Sixco aveva addirittura chiamato la polizia contro un gruppo di disturbatori ubriachi. È qui che Johnbull sfodera il suo contributo più pittoresco alla leggenda della mafia nigeriana.
Un centinaio di persone, dice Johnbull, vanno a casa di Sixco per il rito di affiliazione. I futuri mafiosi bevono un intruglio e recitano una formula dentro un perimetro a forma di bara disegnato da 7 candele. Polizia e giornali continuano a raccontare questa storia.
La storia dell'iniziazione mafiosa a casa di Sixco, però, è semplicemente assurda: Sixco vive in una villetta a schiera a Zevio, paesino a guida leghista in provincia di Verona. Un centinaio di nigeriani ci si sarebbero riuniti di notte per cupi rituali senza essere notati da nessuno.
Assurdità del genere, e le insanabili contraddizioni tra i racconti degli altri "pentiti" da lui organizzati, rendono Johnbull un collaboratore del tutto inattendibile: lo decreta la prima sezione della Corte d'Assise di Palermo l'8 Novembre 2019. Ma la procura non demorde.
Nel processo di appello contro l'assoluzione di Sixco e degli altri membri di NBM la procura porta in Italia dalla Nigeria tutta la famiglia di Johnbull, per far raccontare loro le violenze e le minacce di morte sofferte in seguito al "pentimento" del loro parente.
I racconti dei familiari di Johnbull sono così contraddittori e privi di riscontri che il tribunale conferma le assoluzioni. Gli imputati giudicati in rito abbreviato sugli stessi fatti e in base alle stesse dichiarazioni, invece, sono stati condannati.
Le rivelazioni del "Buscetta nero" sono servite a Peter Gomez per scrivere un editoriale in cui fa una sottile apologia del linciaggio per fermare la mafia nigeriana. Varie procure antimafia in Italia continuano a usare Johnbull per istruire i loro processi.
Le dichiarazioni di Johnbull sono la base di una lunga serie di operazioni contro la mafia nigeriana condotte dalla procura di Palermo. In una di queste finisce in carcere, da innocente, Don Emeka, vittima della persecuzione che lui stesso aveva contribuito a iniziare.
Tre mesi dopo, il 6 ottobre 2019, a soli 29 anni, Don Emeka muore all'ospedale Civico di Palermo, da detenuto, apparentemente per complicanze legate al suo diabete peggiorato in carcere. I suoi amici e la sua famiglia non hanno mai smesso di chiedere giustizia.
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