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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

La democratura avanza



«Nelle espressioni di un eminente giurista – poi costituente - Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini. La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce. Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale. Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola. Lo fece con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e più oppressiva che non la volontà di un principe”. Un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice»: è un passaggio dal discorso pronunciato ieri a Trieste dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione alla cerimonia per la Settimana sociale dei cattolici. Il rferimento esplicito è alla "dittatura della maggioranza", che avanza da qualche tempo nelle democrazie occidentali sotto forma di una teoria secondo la quale i più sono legittimati a decidere qualsiasi cosa, anche a discapito dei meno. Non è così che funziona una democrazia, in cui la tutela delle minoranze è la chiave, e ne avevamo scritto diffusamente in uno degli articoli contenuti nel nuovo numero di Ossigeno, di cui proponiamo di seguito un estratto.


È in corso un dibattito, negli Stati Uniti, che non è fatto per catturare l’attenzione delle masse o conquistare le prime pagine dei giornali; ciò nonostante è molto importante, e indicativo non solo del clima ma anche di una certa deriva che caratterizza un po’ tutte le democrazie occidentali. Malgrado i toni usati in campagna elettorale siano tutto tranne che riflessivi, infatti, anche Donald Trump porta con sé, come sempre accade in questi casi, una dottrina. C’era una dottrina Reagan, c’è stata una dottrina Bush – tra esportazione della democrazia e impostazione economica neocon –, ce n’era una Clinton e pure una Obama (e Biden), per quanto meno capaci di accendere l’interesse degli osservatori, e quindi ebbene sì, pure Trump ha la sua. Deriva al solito da centri studi di parte che indagano la vera natura della democrazia americana, basata su una Carta totem che però è suscettibile di interpretazioni, come dimostrano le decisioni molto differenti che possono giungere dalla Corte Suprema quando cambiano i suoi componenti.

Comunque, il dibattito verte sulla teoria che, in realtà, gli Stati Uniti siano per loro natura non una Repubblica costituzionale, ma più semplicemente una democrazia. Cosa intendono, con tale affermazione, i sostenitori di questa tesi? La differenza non è da poco, poiché mentre nel primo caso la Costituzione garantisce una serie di diritti e di contrappesi istituzionali fondamentali a prescindere da cosa dice la maggioranza degli elettori (e da chi elegge), nel secondo caso quella stessa maggioranza esercita un diritto senza alcun freno. Chi vince le elezioni non solo “prende tutto”, ma diventa emanazione di un potere assoluto, superiore a quello legislativo e giudiziario, prefigurando quindi la via democratica, per così dire, alla dittatura, che poi si identifica più precisamente nella definizione di democratura; insomma, una dittatura della maggioranza.


Questa impostazione, che vediamo riverberare in altre democrazie occidentali e pure nel cuore dell’Europa, ha molto a che fare anche con la riforma costituzionale promossa dalla maggioranza attuale. Nelle numerose occasioni in cui la Costituzione italiana è stata oggetto di attenzioni, sin dall’inizio, i proponenti si sono sempre, senza eccezioni, presentati agli elettori spiegando che il Paese necessitava di governi più stabili, scelti direttamente dai cittadini, superando l’assetto di democrazia parlamentare, quindi dotata di quel passaggio rappresentativo intermedio che ci caratterizza sin dal dopoguerra. È un’idea che, in teoria, agli italiani piace, a leggere i sondaggi, anche se poi il responso dei referendum è sempre stato di segno opposto, come se giunti al momento della verità scattasse – per fortuna – una sorta di freno d’emergenza. La riforma promossa da Giorgia Meloni non è differente, anzi, si spinge persino un po’ più in là, configurando una forma di premierato talmente forte che non ha eguali in nessun Paese occidentale, nemmeno negli Stati Uniti dove dopotutto il Commander in chief ha sì poteri enormi, e riceve in dote anche una carica simbolica senza eguali, ma senza un Congresso a favore risulta comunque limitato, e deve trovare il modo di convivere con gli altri poteri dello Stato. Quasi ogni elezione americana, infatti, manifesta quello che in gergo viene chiamato il “responso dell’elettore pentito”: che ha votato in un modo due anni prima e poi cambia sponda due anni dopo, tipicamente durante le elezioni di mid-term, creando così una situazione in cui c’è un Presidente in carica di un colore, e un Congresso (o almeno una delle due Camere) dell’altro: la famosa anatra zoppa. In questo modo, l’attività legislativa deve scendere sul terreno dell’accordo bipartisan, non esiste un ramo dello Stato che possa fare e disfare senza accordarsi almeno un pochino con la controparte. Una gran fatica, ma le democrazie questo sono: faticose. L’elemento chiave è rappresentato proprio dallo sfasamento tra l’elezione dell’esecutivo e quella del legislativo, mentre la riforma Meloni mette tutto insieme in un’operazione di ingegneria costituzionale in cui, grazie ai soliti spropositati premi di maggioranza, in un turno secco si decide tutto, e se ne riparla poi tra cinque anni. Durante i quali, peraltro, quegli stessi numeri rendono molto facile determinare l’orientamento della Corte costituzionale, fare lo stesso con la giustizia e, perché no, eleggere in autonomia o quasi pure il Presidente della Repubblica: bingo, filotto, en plein.


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