A prima vista Marco Omizzolo è una figura d’altri tempi. Un sociologo, un reporter, un sindacalista, un militante.
Si è appassionato, nel corso degli anni, alla causa più persa di tutte, quella della migrazione e dello sfruttamento.
Non è mai stato un esercizio teorico, il suo: ha preso parte alle situazioni che descriveva, che non sono mai state soltanto “oggetto” delle sue ricerche perché Omizzolo ha contribuito a rendere soggetti attivi molti lavoratori e molte lavoratrici che non avevano alcuna rappresentanza. Anzi, non avevano letteralmente via di scampo da una situazione che non è enfatico definire di schiavitù.
Lo ha fatto spesso in solitudine, rischiando la propria incolumità e collezionando un numero infinito di porte in faccia, come capita a chi porta cattive (orrende!) notizie e le domande che più spiacevoli non si può al potere, quello economico e quello politico.
La storia di Balbir Singh, che People gli ha chiesto di raccontare (Il mio nome è Balbir, disponibile qui), è la storia più potente, tra quelle raccolte e vissute in prima persona da Omizzolo: è una storia di uno sfruttamento indicibile tanto quanto di una sorprendente liberazione.
Nel libro ci sono entrambi, Balbir e Marco. E crediamo che nel panorama editoriale italiano questa sia una storia unica e rappresentativa di tutto ciò che appunto ci appare fuori dal tempo in cui viviamo: perché ci si può liberare, perché le cose non sono date una volta per tutte, perché anche chi è perduto può salvarsi.
Non capita per caso: succede solo se c’è l’impegno, se c’è lo studio, se c’è la politica. Senza queste componenti le tragedie rimangono tali. Se non lo abbiamo ancora capito, Omizzolo continuerà a ricordarcelo. Con la storia personale, personalissima di Balbir e con un messaggio che deve diventare universale.
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