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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Ma alcuni sono più uguali degli altri


Foto di Niccolò Caranti, CC BY-SA 3.0

Con questo quanti sono, quindici anni che il Movimento 5 Stelle si sta scindendo? La vita è quella cosa che passa mentre i grillini si dividono, a quanto pare. Anzi no, non si possono più chiamare grillini, e peraltro il termine non l’hanno mai amato, nemmeno quando grillini lo erano sul serio. Comunque, oggi non più, è deciso. Democraticamente. Più o meno. Hanno fatto l’equivalente di un congresso, che però non era proprio un congresso, per darsi un’organizzazione, che però non era proprio un’organizzazione, e del resto avevano fatto un partito, che però non era proprio un partito, e così via: è la loro cifra stilistica.

 

Siamo invecchiati, tutti, a forza di aspettarli, e nel frattempo sono invecchiati pure loro. E le loro proposte. A cui dovevano quel nome improbabile (che forse ora cambieranno): qualcuno ricorda perché proprio “cinque stelle”, cosa significa? Bisogna cercarlo su Wikipedia: “beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione tecnologica ed economia eco-sociale di mercato”. Questo nel 2009, anno di fondazione ufficiale, anche se già dal 2005 esistevano i Meetup, che si coordinavano via social network e agivano su base locale, ispirandosi alla campagna presidenziale di Howard Dean del 2003. Si chiamavano “Amici di Beppe Grillo” - vatti a fidare degli amici, col senno di poi - ed erano stati loro a chiedere al leader di candidarsi alle primarie del centrosinistra, quelle de L’Unione, con Bertinotti, Di Pietro, Pecoraro Scanio, Scalfarotto, Mastella e Prodi. Voleva provarci pure Vittorio Sgarbi, per dire che Grillo non era nemmeno il più improbabile di quel mazzo, ma comunque non se ne fece nulla: la “fortissima” vocazione progressista era di là da venire, e come si è visto poi non è mai stata nemmeno così forte.

Comunque, quei primi grillini, anzi, quei protogrillini, erano mediamente giovani, molto motivati, un po’ naif, a loro modo teneri, ma anche vagamente inquietanti. In nuce, presentavano già tutte quelle caratteristiche che poi si sono palesate quando il M5S è nato e quando ha avuto i suoi successi, quando ha governato. Da un lato, una serie di istanze sacrosante, che i partiti tradizionali non vedevano o fingevano di non vedere: la necessità di un ricambio e di nuovi paradigmi, l’attenzione per tematiche perlopiù ignorate, ma soprattutto la capacità di intercettare la crescente sfiducia nella politica per come si era sempre fatta. Dall’altro lato, però, competenze non proprio sfavillanti, meccanismi interni discutibili, e una pretesa superiorità morale, un talebanismo di fondo, l’incapacità di capire che sostenendo che i politici “sono tutti uguali”, anche loro erano destinati a fare la stessa fine. Non per tirargliela, ma per mero assunto ontologico. E infatti è andata esattamente così.

 

La prima occasione utile era stata quella di governare con il Pd di Bersani, e l’avevano rifiutata nel corso di una diretta (ve le ricordate le dirette?) verbalmente memorabile e violenta, ma al secondo giro non si erano fatti molti problemi a stralciare dai loro principi il divieto di creare alleanze e coalizioni, malgrado in quel caso si trattasse di accordarsi con la Lega di Salvini. Tutte le rivoluzioni, pare, finiscono nello stesso modo: si fa fuori l’èlite dominante e semplicemente se ne prende il posto lasciando tutto il resto com’è, o addirittura peggiorandolo un po’, come fanno i maiali ne La fattoria degli animali di Orwell. Si inizia sempre proclamando che “tutti gli animali sono uguali”, e si finisce sempre per aggiungere “ma alcuni sono più uguali degli altri”. Con la precisazione che probabilmente i maiali, e anche i grillini, questa cosa in fondo la pensano già da prima. In ogni caso, la successione del no al Pd e del sì alla Lega, con in premessa un casino assurdo sull’elezione del presidente della Repubblica, avrebbe dovuto esser sufficiente a chiarire la questione, e a metterci una croce sopra. Invece, è poi seguito un Conte Bis, questa volta con i Dem, caso unico nella storia del Paese di un premier che si ripete con due maggioranze completamente diverse, e l’equivoco è andato avanti. Senza che nessuno sappia spiegare con precisione perché: cosa è rimasto, di quei cinque punti di principio del Mov, che avevano solide ragioni di esistere e che raccoglievano un sentire concretissimo del Paese? Poco o niente, ma fa lo stesso.

L’ultimo tabù, l’ultima foglia di fico a cadere, è la nuova e ampia deroga al limite dei due mandati: che si era dato anche il Pd, e per ragioni fondate. Perché la permanenza nelle istituzioni a lungo andare le danneggia, anche quando riguarda persone che stimiamo e che ci piacciono. Anche se il rischio è che vincano gli altri, è una questione di igiene democratica. In Campania la maggioranza si sta struggendo proprio su questo aspetto, con i partiti nazionali che vorrebbero un passo indietro di De Luca, magari per candidare Fico (a proposito di foglie di), e l’attuale governatore che invece vorrebbe farsi un terzo giro. E che, visti gli sviluppi, alle eventuali obiezioni ora potrebbe tranquillamente rispondere: «beh, anche voi».

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