Al convegno di Firenze del 10 febbraio, esordio della mobilitazione nazionale contro l’introduzione nel nostro ordinamento dell’elezione diretta del(la) presidente di Consiglio, i partecipanti sentono di essere chiamati a difendere la Costituzione da un nuovo assalto di chi vuole scardinare l’architettura istituzionale della Repubblica.
L’evento è stato organizzato con lo scopo di chiamare a raccolta tutte le forze politiche, sindacali, civiche e sociali che intendano opporsi sia al premierato che all’attuazione dell’autonomia differenziata. A tutti appare chiarissimo, infatti, che occorra la massima convergenza non solo negli intenti, ma anche sul piano operativo.
In questa logica, già nella fase preparatoria il convegno fiorentino ha segnato il ravvicinamento fra i due principali gruppi formatisi a suo tempo per organizzare le mobilitazioni a difesa della Costituzione: il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, presieduto da Massimo Villone e articolato in decine di Comitati per la Difesa della Costituzione attivi a livello locale, e Salviamo la Costituzione, associazione presieduta da Gaetano Azzariti e a sua volta presente nelle regioni con numerosi comitati locali. Le due organizzazioni, che con Libertà e Giustizia hanno dato vita all’evento di Firenze, si sono ritrovate nel nome di Francesco Baicchi, attivista recentemente scomparso, coordinatore dei Comitati per la Difesa della Costituzione toscani, la cui instancabile opera di formazione, informazione e tessitura è stata celebrata nel corso della giornata insieme a quella di Felice Besostri, l’avvocato protagonista delle vittoriose battaglie giudiziarie contro le leggi elettorali di Calderoli e Renzi, conosciute rispettivamente come Porcellum e Italicum.
La frase più ricorrente, in attesa dell’inizio dei lavori, è “ci risiamo”: prestigiosi accademici, magistrati in pensione, attivisti politici, esponenti di mondi sindacali e associativi, tutti quanti confrontano la situazione odierna con quelle che culminarono nei referendum costituzionali del giugno 2006 e del dicembre 2016, entrambi vinti da chi si oppose alle modifiche approvate dai Parlamenti dell’epoca.
L’impressione diffusa è che il tentativo da fronteggiare oggi sia più subdolo dei precedenti, perché le modifiche proposte investono un numero di articoli della Costituzione ben minore di quello oggetto delle due riforme di Berlusconi e Renzi, consentendo alla maggioranza governativa che li promuove di qualificare come esagerati gli allarmi lanciati da chi le contesta.
Traspare però dalle considerazioni dei presenti anche la consapevolezza che gli anni trascorsi dalle precedenti mobilitazioni collettive abbiano modificato, non solo in Italia, lo scenario politico e culturale, con quote significative di popolazione che sembrano percepire come normale la gestione verticale del potere e con un numero crescente di cittadini e cittadine che non nascondono il proprio apprezzamento per le cosiddette “democrazie illiberali” che fioriscono nel mondo.
In un saggio collettivo apparso nel 2017, intitolato La grande regressione (con esplicita allusione alla celebre opera di Karl Polanyi del 1944), Ivan Krastev osservava che una delle caratteristiche proprie delle democrazie moderne consiste nel fatto che chi vince non faccia piazza pulita di nemici e oppositori, i quali non devono temere per sé stessi e hanno la possibilità di riorganizzarsi per tentare di vincere la volta successiva; a questo “vantaggio” per la cittadinanza corrisponde però uno “svantaggio” per chi vince, perché la sua azione trova sempre dei limiti: i cittadini quindi sono più liberi, ma si sentono meno “potenti”. Il fascino della cosiddetta democrazia autoritaria sta anche in questo, nel fatto cioè che i movimenti che se ne fanno promotori disconoscano tali limiti, promettendo vittorie meno ambigue: essi non vedono nella separazione dei poteri e nei meccanismi di pesi e contrappesi un modo per tenere sotto controllo il potere, bensì uno strumento con cui le élite sconfitte impongono un limite alla loro azione.
È in questo scenario che l’eventuale affermazione del premierato elettivo non è vista e temuta come un cambiamento istituzionale, bensì come una rottura (così Gaetano Azzariti): un salto che sancirebbe la vittoria culturale della destra in Italia, con l’affermazione di un nuovo progetto politico, sulle ceneri del disegno costituzionale fondato sulla Resistenza.
Una svolta che probabilmente romperebbe anche il residuo argine istituzionale al dilagare di quelle forme contemporanee di nazionalismo a cui questa rivista ha dedicato il proprio n. 7 nel 2022. Non a caso Augusto Cacopardo, nel proprio intervento, ha messo in relazione i modelli istituzionali verticali e gerarchici con l’insistenza con la quale un po’ tutti gli esponenti dell’attuale maggioranza governativa, a partire dalla presidente del Consiglio, cercano di imporre un lessico nuovo, in cui la “nazione” prende sistematicamente il posto del “Paese” e, soprattutto, gli “italiani” si sostituiscono ai “cittadini”. In questa prospettiva, secondo Cacopardo, ciò a cui si vuole arrivare pare sostanzialmente uno “Stato etnico”, lo “Stato degli Italiani”: obiettivo che certamente non coincide col progetto della Costituzione repubblicana, che in ben 139 articoli, più 18 disposizioni finali, usa la parola “italiani” un’unica volta, all’art. 51, in tema di ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive. Ma uno Stato etnico, per definizione, non può essere veramente democratico, in quanto assume che tutti debbano adeguarsi al punto di vista del gruppo etnico predominante.
Chi oggi si mobilita è comunque cosciente che non possono bastare i generici appelli alla difesa della “Costituzione più bella del mondo” e che non sia sufficiente lanciare allarmi contro la “svolta autoritaria”: per venirne a capo occorre un’azione informativa capillare, occorre agire in tanti e occorre anche trovare presto un fil rouge intorno al quale costruire un’efficace contro-narrazione.
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