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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Nati ieri


Non si sa mai bene come porsi, quando ci si trova di fronte a un messaggio importante veicolato in un contesto leggero, pratica che è divenuta abituale nelle ultime edizioni del Festival. Giacché Sanremo è un carrozzone, anzi è “il” carrozzone, allora cosa pensare dell’ospite che monologa su un tema delicato e di grande importanza? Il media è il messaggio, come diceva McLuhan, e quindi il contenuto si perde rispetto alla rilevanza del contenitore? Oppure, al contrario, il bicchiere va visto mezzo pieno e bisogna comunque felicitarsi del fatto che pur nel bel mezzo di un circo passi qualche concetto uno zinzino più edificante? E che dire poi del messaggero di turno: è sincero o è ipocrita, è in contraddizione con se stesso o è coerente, è interessato e in fondo non gliene frega niente oppure è limpidamente mosso da civilissimo impegno? Il dibattito si ripropone ogni volta uguale, e a dispetto della ferocia con cui i sostenitori sostengono una tesi o l’altra forse è irrisolvibile.


Meglio allora lasciar perdere, e concentrarsi su un altro aspetto del fenomeno, ovvero la sua ciclicità, la sua ripetitività. Il cantante sessualmente ambiguo e fluido? Già visto, si prenda ad esempio Elvis Presley (settant’anni fa), e prima ancora Rodolfo Valentino (un secolo fa), e dagli anni Settanta in poi sarebbero troppi da elencare. L’artista iconoclasta che spacca tutto? Visto, stravisto, lo faceva Pete Towsend (oltre mezzo secolo fa), per non parlare di un’infinità di gruppi della stagione del punk (appena più recente). Gli artisti italiani che piacciono all’estero e riescono a duettare con grandi star tipo i Måneskin con Tom Morello? Ma cosa volete che sia per chi aveva già visto Louis Armstrong in coppia con Lara Saint Paul, Ray Charles cantare un pezzo di Toto Cutugno e Miles Davis esibirsi con Zucchero, suvvia. E se a qualcuno venisse in mente di suonare in carcere, magari per i detenuti del 41 bis, tenga presente che Johnny Cash lo aveva già fatto quasi sessant’anni fa, prima nella prigione di Folsom e poi in quella di San Quintino, entrambe in California, e più recentemente Elio e le Storie Tese avevano dato uno spettacolo memorabile al Beccaria di Milano.


È già stato fatto tutto, non a caso della cultura contemporanea si dice che è derivativa, ossia che deriva, appunto, da qualcosa di precedente, e non è nemmeno una novità, visto che anche il postmodernismo, che a seconda di dove lo si fa partire ci può riportare indietro anche di oltre mezzo secolo per arrivare fino ai nostri giorni, usava l’imitazione e il citazionismo per destrutturare ma comunque riproporre gli stili del passato. Tutte cose di cui le generazioni appena più grandicelle erano forse vagamente consapevoli, perché da giovani sapevano riconoscere una citazione di Via col vento anche se era un film uscito nel 1939, quattro o cinque decenni prima della loro nascita, perché erano cresciuti in un contesto in cui non esisteva internet e la tivù aveva, a seconda del periodo, solo tre e in seguito al massimo sei o sette canali, e a un certo punto pur di guardare qualcosa si stava davanti anche alle repliche pomeridiane dei vecchi film in bianco e nero di Totò e Peppino. Non come i Millennials, che vivono sotto il costante bombardamento di nuovi contenuti, che non fanno in tempo a finire una serie che nel frattempo ne sono uscite altre ventordici, che non sanno niente del grunge perché per loro gli anni Novanta sono come le Guerre Puniche e la loro giornata è pur sempre fatta solo di 24 ore, non è che possono star dietro a tutto.


È gioco facile riproporre sempre la stessa minestra, tanto per i giovani è tutto nuovo e per i più cresciuti idem, visto che invecchiando si sono scordati com’erano prima e non si sono accorti di esser diventati tromboni come lo erano i loro genitori, i matusa che si scandalizzavano per i capelli lunghi o i basettoni: in un certo senso siamo tutti nati ieri, o almeno è così che ci trattano. Quanto ai contenuti, quelli più seri, il femminismo, l’antirazzismo, i valori repubblicani… tutte questioni sacrosante, ma non scorre un brivido lungo la schiena quando improvvisamente si è colti dalla consapevolezza del fatto che in fondo, porca miseria, siamo nel 2023? Nel 2002 Benigni aveva fatto dal palco dell’Ariston un monologo a tema politico che era stato contestato dalla destra, vent’anni dopo ci è tornato per essere contestato dalla stessa parte politica, persino dalle stesse persone, e non ha nemmeno dovuto scendere nel dettaglio della polemica politicante, gli è bastato parlare della Costituzione, cosa che non rappresenta esattamente un bel segnale.


Questo è un Paese in cui una tra le più ammirate star televisive nell’Italia alla fine degli anni Sessanta era l’afroamericana Lola Falana e che quando, decenni dopo, nel 1996, ha eletto una Miss di pelle scura, originaria di Santo Domingo, è stato un tale trauma che ancora molti italiani non se ne fanno una ragione, non importa che nel frattempo centinaia di migliaia di bambini italiani con le stesse tonalità epidermiche siano nati, cresciuti e diventati adulti. Un Paese che ha avuto più di dieci anni fa un centravanti della nazionale figlio di genitori ghanesi e la prima medaglia d’oro olimpica nei 100 metri vinta da un velocista afrodiscendente nel 2020, e nel 2023 ha ancora bisogno che una pallavolista non caucasica salga sul palco del festivalone nazionalpopolare per spiegare che - sorpresa! - siamo sempre fermi allo stesso punto. Benigni nel 2002 aveva già 50 anni, oggi ne ha 71, gli toccherà tornare da novantenne, mentre Gasparri protesta dall’ospizio perché si è scordato di prendere le sue goccine di Serenase? E Paola Egonu, che di anni ne ha solo 25, quante volte dovrà scendere quelle scale? È una condanna a vita, tipo.


Non è un caso che in questi ultimi anni uno degli slogan delle femministe di tutto il mondo dica “non ci posso credere che devo ancora protestare contro questa merda”: l’aborto è regolamentato in Italia da una legge del 1978, pensavate forse di poter stare tranquille? Ma nemmeno per scherzo, anzi, c’è ancora bisogno che una donna salga sul palco per spiegare che sì, pazzesco, le donne esistono nella società, vogliono essere libere di decidere per loro stesse e fanno le medesime cose degli uomini, come se questa non fosse una Repubblica fondata grazie alla lotta di liberazione combattuta anche dalle partigiane, la bellezza di ottant’anni fa. Ed è questo che dovrebbe sconvolgerci, chissenefrega di dibattere su Chiara Ferragni, francamente, perché qui pare di stare dentro Matrix, dentro una simulazione della realtà in cui ogni tanto il sistema si resetta e bisogna ricominciare tutto daccapo. In cui si deve festeggiare come conquista la ripetizione di un concetto talmente banale che dovrebbe esser dato da un pezzo come acquisito. E invece no, tocca ribadirlo: ma davvero non c’è molto di cui rallegrarsi, è illusorio scambiarlo per progresso, al contrario è la fotografia di uno stato delle cose spaventosamente immutabile.




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