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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Per colpa di un chiodo


«Ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»: così Salvini, inginocchiato davanti a Giorgia Meloni come John Belushi in Blues Brothers, che cerca di giustificarsi per il disastro ferroviario dell’altro giorno. In realtà non proprio, ma quasi: dice infatti che è stata colpa di un chiodo. C’è chi è andato a fotografarlo, il luogo del misfatto: nell’immagine si vede una canalina per cavi ad alta tensione, come suggerisce la scritta “PERICOLO DI MORTE”, tutta in maiuscolo, sovrastata dal disegno di un teschio con le tibie incrociate, ma qualcuno deve aver pensato che quello fosse il posto giusto per piantarvi un chiodo: non lo era. Altri si sono chiesti se sia normale che un impianto da cui dipende il funzionamento di un’infrastruttura strategica per il Paese sia più o meno in bella vista, invece che interrato, tipo. In fondo sembra una canalina come tante, con la differenza che, come oggi tutti gli italiani sanno, se uno in vena di burle passa di lì, con una martellata può mettere in ginocchio i trasporti nazionali. Non subito, però: prima parte il gruppo di continuità, e la rete va avanti per alcune ore, più o meno come se nulla fosse, almeno finché il gruppo di continuità non si scarica, che poi a quanto pare è quello che successo: il guasto è stato rilevato solo dopo, perché fino a quel momento nessuno aveva proprio idea che fosse avvenuto. Pare giusto: mica solo i servizi soffrono di disservizi, ma anche i disservizi stessi.

 

Altri ancora, infine, hanno fatto notare che ovviamente non si può dare colpa al ministro per un operaio che pianta un chiodo dove non dovrebbe, in un punto qualsiasi della rete ferroviaria italiana, che è pur sempre molto grande. Vero. Però si può sindacare sul “tempo ministeriale” che un rappresentante delle istituzioni impiega occupandosi effettivamente del suo dicastero, specialmente in rapporto a quanto ne passa in quello che potremmo invece chiamare “tempo per i cazzi suoi”: mangiare alle sagre, tifare per il Milan, fare gli auguri ai vari leader delle destre mondiali, organizzare Pontida, cose così. E non siamo nemmeno in campagna elettorale, quando di solito la sua agenda si fa ancora più fitta. Pochi giorni fa, quando il nuovo ministro della Cultura Giuli si è infine laureato, c’era chi si chiedeva se è normale che ormai anche per sbucciare le patate sia richiesta una laurea, mentre per fare il ministro no. È una domanda legittima, ma in realtà il problema è a monte, perché sarebbe già un bel passo avanti se chi fa il ministro facesse effettivamente il ministro, o avesse quantomeno un certo senso delle cose che gli capitano intorno. Quando vi furono gli attentati dell’11 settembre, un addetto dei servizi segreti andò a dirlo in un orecchio al presidente degli Stati Uniti George W. Bush, che in quel momento si trovava in una scuola elementare in Florida, e stava leggendo una favola su una capretta. Bush restò attonito per qualche secondo - lo sappiamo perché c’è il filmato - e poi finì di leggere la fiaba. In quanto a percezione delle priorità, in confronto, un ministro che pubblica sui social un post di augurio ai nonni mentre è nel caos un’infrastruttura nazionale che dipende dal suo ufficio, tutto sommato, ci sta.

 

Si dice che, se uno è un martello, tutto quello che vede gli sembra un chiodo, e su un argomento simile un’antica filastrocca inglese dice così:

Per mancanza di un chiodo, si perse la scarpa.

Per mancanza di una scarpa, si perse il cavallo.

Per mancanza di un cavallo, si perse il cavaliere.

Per mancanza di un cavaliere, si perse il messaggio.

Per mancanza di un messaggio, si perse la battaglia.

Per mancanza di una battaglia, si perse il regno.

E tutto per la mancanza di un chiodo.

 

Questo relativamente all’ipotesi che il chiodo manchi: purtroppo la tradizione orale non aveva previsto il caso in cui ce ne sia uno di troppo.

E nemmeno la scienza: nel 1961, l’astrofisico Frank Drake pubblicò una formula matematica ideata per stimare il numero di civiltà aliene presenti nella nostra galassia, abbastanza intelligenti ed evolute da essere in grado di comunicare con altri pianeti:


Dove N è appunto il numero di civiltà della nostra galassia con cui si dovrebbe poter comunicare, R è il tasso di formazione di nuove stelle e, a seguire, via via la frazione di dette stelle con pianeti, il numero medio di pianeti per sistema, il numero fra questi su cui potrebbe essersi sviluppata vita, la frazione in cui si è evoluta in forme intelligenti, quelle in grado di comunicare e infine, soprattutto, la loro durata (L).

Attualmente, dicono gli esperti, abbiamo qualche difficoltà a stimare il valore corretto da attribuire a ogni singola funzione, ne sappiamo ancora troppo poco e le nostre misurazioni non sono così ampie. E questo genera stime molto differenti tra loro, tra 600mila (secondo il parere degli ottimisti), a un molto pessimista 0,0000001. Ma è stato il divulgatore e astronomo Carl Sagan a fornire in proposito un punto di vista sulla formula del tutto diverso, sostenendo che per quanto sia discutibile per il suo scopo originario, è invece molto utile per valutare lo stato di avanzamento della nostra specie, più che di quelle aliene, poiché ogni civiltà che raggiunge un picco evolutivo e di civilizzazione, di solito, si avvicina pure alla sua estinzione, e potrebbe essere il nostro caso.

 

Questo cambia tutto, perché significa che non basta stabilire quante specie intelligenti ci sono nella nostra galassia, ma anche cosa intendiamo davvero per intelligenza, fattore che non possiamo conoscere con certezza finché non le incontriamo, o almeno finché non vediamo cosa pubblicano sui social network, e soprattutto quando. La scienza non ama mischiarsi con la filosofia, ma la questione si fa quasi ontologica se ipotizziamo, per assurdo ovviamente, che una specie possa raggiungere grandi progressi tecnologici e però, per qualche ragione, scelga di farsi governare da una classe dirigente particolarmente stupida, il che implica che sia a sua volta stupida, purtroppo: una sorta di fattore S da aggiungere all’equazione, insomma. Qualcuno che gli alieni non contatterebbero mai, se pure scoprissero a che ora è effettivamente in ufficio, una variabile per la quale ancora non esiste una formula esatta. Uno a cui, in condizioni normali, non dovrebbe esser concesso di far nulla di più complesso che lavare le scale, e che invece si trova a decidere, sempre per ipotesi, se costruire centrali nucleari, o come gestire le forze armate, o anche solo (si fa per dire) stabilire se fare o non fare una campagna di vaccinazione. Non per forza un malintenzionato, perché per far danni seri non serve essere Attila, o Hitler, o Thanos, basta uno un po’ scemo, ma sì, insomma, un coglione, magari convinto di essere un genio, e come se non bastasse pure lazzarone, messo in una posizione di responsabilità, che invece di fare il suo lavoro coltiva la passione per la porchetta. Così, mentre il mangiapane a tradimento si concede una pennica postprandiale, un incidente altrimenti banale si trasforma in una catastrofe. Un granello di sabbia nel meccanismo, un imprevisto infinitesimale, che lo ingolfa, lo fa deragliare, e da lì all’estinzione è un attimo. Tipo un chiodo, appunto.

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