Socialismo tascabile è un reading e un libro di Giuseppe Civati, e da oggi anche una newsletter settimanale per i lettori di Ossigeno.
Presentazione
Socialismo tascabile fu un’intuizione di Arturo Bertoldi che piacque così tanto a Max Collini da diventare il titolo del primo album degli Offlaga Disco Pax.
Si riferiva a un’epoca che non c’è più: si coltivava allora una speranza che si è perduta ma che, in verità, non dovrebbe abbandonarci mai.
Mi affido al ricordo di Bertoldi per introdurre lo spirito di questa newsletter, che è anche un reading e un vero (libro) tascabile.
Una precisazione: la data conta, perché la “provocazione” del socialismo tascabile nasce nel 1987, poco prima che cadesse il Muro e in Italia la Repubblica dei partiti. E tutto si tiene. Anzi, a dirla tutta, non si tiene proprio più…
Arturo Bertoldi
Il socialismo tascabile spiegato alle masse. Note ad uso delle giovani generazioni.
Il socialismo tascabile nasce sul treno da Bologna a Reggio Emilia dopo l’ennesima riunione in via Barberia, la sede del PCI. C’era ancora il socialismo reale e c’era ancora il “modello emiliano”. Era assolutamente necessario pensare a qualcosa per non rimanere stritolati dalla realtà e per arrivare a casa in tempo per la cena.
La famiglia Bertoldi era una famiglia puntuale.
Socialismo sappiamo più o meno cosa significa. L’aggettivo “tascabile” nasce, invece, dalla passione per i libri economici. Il tascabile ha tutto quello che serve dell’edizione originale, senza il peso di illustrazioni e brossure. Contemporaneamente te lo puoi portare dappertutto, sottolineare, piegare le pagine, spiegazzare, mangiarci sopra, macchiarlo di caffè senza sentirti in colpa.
Insomma il libro diventa tuo, solo tuo. Tiene poco posto, ma quello che tiene e proprio quello che ti serve.
L’esatto contrario del socialismo realizzato e dei volumi che ti regalavano allo stand dell’URSS alla Festa Nazionale dell’Unità con le copertine che odoravano di cuoio mal conciato (non male nemmeno quelli della Nord Corea).
Nei tascabili, poi, finivano spesso gli autori meno conosciuti o quelli maledetti. Li trovavi spesso nelle edicole delle stazioni. Un universo solo all’apparenza marginale ed emarginato in cui Star Trek conviveva con il saggio Einaudi di grido, Spillane con Gramsci, Tex con Frank Zappa.
Tascabile perché tanto in questa vita abbiamo la possibilità solo di portare un bagaglio a mano.
Socialismo, perché alle radici non c’è rimedio e c’è sempre un cippo partigiano sotto un ipermercato.
Tutto questo ha pochissimo a che fare con il marxismo, pensato e realizzato. Quello che ci preme è quell’attitudine a pensare una soluzione positiva, presente e futura, della propria vita e di quella delle persone che ti circondano. Quella attitudine che ha sempre accompagnato il socialismo.
E poi ci interessa l’immaginario, i simboli che hanno rivestito un sogno, un brivido e un incubo. Tutto questo senza timori e senza paura. Siamo nati nel 1987…
Senza timori e senza paura, molti anni dopo, vi porto con me in un viaggio nel mondo del troppo e della dismisura, un percorso attraverso le parole perdute, le cose che nemmeno pensiamo più, i paradossi che ci hanno travolto, le contraddizioni dalle quali non sappiamo riprenderci.
Chi si recava anticamente al santuario di Apollo a Delfi, secondo la tradizione, trovava scritto: Medèn ágan. Nulla di troppo. Una frase che trovo perfetta come slogan politico. Come se fossimo arrivati al momento in cui dire, più prosaicamente, “quando è troppo, è troppo”.
Il mio è perciò un invito rivoluzionario alla moderazione contro l’avidità e contro la dismisura. In fondo non si sta chiedendo nulla di troppo. Anzi, è proprio con il troppo che ci si intende confrontare.
E non possiamo che partire dai poveri, che sono i primi a essere troppi.
Pochi poveri
Marco Tiberi lo raccontava spesso e ne ha scritto per Ossigeno (ora in Cìavete fatto caso? Scritti politici che People ha pubblicato nel settembre del 2024).
Parlava di quando Massimo Troisi è salito sul palco del Festival di Taormina. Era il 1981, Troisi riceveva un premio per Ricomincio da tre.
Scriveva Marco:
«Abbiamo “gli svantaggiati”, “quelli che stanno meno bene”, “quelli più in difficoltà”, “quelli che non arrivano alla fine del mese”, ma la parola povero non la usa quasi più nessuno. Già da molto prima che Di Maio abolisse la povertà.
Torna alla mente un vecchio pezzo di Troisi. […] Massimo Troisi riceveva un premio al teatro greco di Taormina e quando gli venne chiesto che impressione gli avesse fatto la cittadina, lui rispose che gli aveva fatto una bella impressione, però, almeno nell’albergo dove stava lui, aveva visto “pochi poveri”. E si chiedeva: visto che i poveri si lamentano sempre che non vanno mai da nessuna parte, perché non si fanno un bel mese di vacanza a Taormina? Il pezzo è epocale, per fortuna c’è su Youtube, lo consiglio a tutti. Lo spunto è paradossale ma rivela la realtà, Troisi lo faceva sempre.
Ecco, proprio come in quell’albergo a Taormina, ci sono pochi poveri nella narrazione che il Paese fa di sé da diverso tempo, anche ora che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio nel frangente calamitoso che ci ritroviamo ad attraversare.»
Lo spezzone si trova online e mi sono permesso di trascriverlo perché è una chiave imprescindibile per capire il grande paradosso in cui viviamo e il senso di un ribaltamento che mi pare sempre più necessario.
«Che impressione mi ha fatto la cittadina di Taormina? Una bella impressione. […] Mi hanno messo in un albergo stupendo, ho visto tutta gente stranissima… però ecco a Taormina, almeno dove sto io, nell’albergo… pochi poveri.
No, veramente è questa una cosa che mi ha colpito, perché ho visto tutta gente così, ma i poveri qui non vengono? Infatti io non tenevo la giacca, mi hanno scambiato subito per un povero. Lei che fa qua? No, io sono Troisi e noi portiamo una giacca io e Benigni. Dice, allora va bene…
È strano questo fatto che i poveri… che poi si lamentano sempre, però, eh i poveri. Io tengo una zia che è povera, cioè pure uno zio e pure un cugino. È una famiglia, insomma, un po’ povera, come famiglia. E si lamenta sempre, mia zia. Tiene sei, sette figli. E si lamenta: io non vado mai da nessuna parte, non mi piace niente… È colpa dei poveri. Perché non pigli i sei figli e non vieni un mese a Taormina?! Poi vedi se ti diverti o no! Perché i poveri sono sempre là, non vanno mai da nessuna parte. Che poi i ricchi si offendono. Io in albergo ho visto due ricchi che stavano piangendo, proprio. Parlavano tra di loro e dicevano: ma com’è che i poveri non vengono mai dove stiamo noi? Perché noi facciamo schifo? E invece no!»
Sono i poveri – non più raccontati, come Marco spiega benissimo, benché siano aumentati di numero in modo esponenziale – che non si sanno organizzare, che non prendono l’iniziativa, che oltretutto fanno soffrire i ricchi. Non è molto lontano dalla morale corrente, secondo la quale chi è povero ha sbagliato qualcosa, non ha saputo “muoversi” e insomma è un perdente. E deve limitarsi a ringraziare il ricco per l’opportunità che gli viene concessa, quando si tratta di lavorare.
Troisi si immerge nel paradosso con suprema ironia, la politica dovrebbe ribaltarlo, una volta per tutte, perché questo modo di pensare si è imposto nell’immaginario e vizia tutto il dibattito pubblico, a cominciare dal fatto che nel marginalizzare i poveri sono diventati un po’ più poveri tutti quanti. È ora di rimettere le cose a posto. A cominciare dai salari – che in questi ultimi decenni sono addirittura diminuiti, mentre salivano in tutti i Paesi europei – e da un welfare che torni a essere universale. Tutte cose che fanno pensare a quel socialismo che, appunto, dovremmo metterci in tasca. E portarlo ovunque possiamo.
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