Quando, con Paolo Cosseddu, abbiamo scelto di chiamare America vs America il libro e poi questa newsletter dedicati agli Stati Uniti nell’anno delle elezioni presidenziali, lo abbiamo fatto ovviamente per sottolineare le profonde divisioni che da anni ormai segnano la società americana ancor più di quelle degli altri paesi occidentali. Scrive Cosseddu nell’introduzione:
“Quale America uscirà dalle urne? E con quali conseguenze, sia per la propria sopravvivenza che per il bene del mondo intero? Riuscirà a riconciliarsi con la controparte? Il quadro è fosco, la spaccatura profonda. Per le sorti di una democrazia che si vorrebbe funzionante, si tratta di una strada a senso unico: la legittimazione delle opinioni dell’avversario è un elemento imprescindibile, perché quando manca non c’è più interesse del Paese che conti, non c’è più possibilità di dialogo, che diventa anzi una pratica sospetta, e l’altro diventa un nemico. E il nemico mente, imbroglia, complotta, è infido. Come nei litigi tra bambini, ognuno incolpa l’altro, e cercare le ragioni non è solo difficile, è inutile, visto che peraltro non ci sono adulti in casa: o meglio, ci sarebbero le istituzioni, ma quelle sono le prime a veder crollare la loro autorevolezza. Al loro posto, quindi, non resta altro che il caos”.
Le prime settimane in seguito al voto del 5 novembre sembrano dire che siamo stati facili profeti. Abbiamo assistito all’irresistibile ascesa nel firmamento politico statunitense di Elon Musk, insediatosi a Mar-a-Lago – guardando alla Casa Bianca – da coinquilino quantomai ingombrante di Trump. Abbiamo osservato la galleria degli orrori delle nomine presidenziali. Abbiamo avuto un assaggio delle Trumponomics 2.0, che avranno peraltro conseguenze gravissime per l’economia europea e in particolare italiana. Per tutto questo, e molto altro, vi rimandiamo però al nuovo numero di Ossigeno, dove troverete interessanti approfondimenti su questi temi a cura della nostra redazione, ma anche contributi esterni di grande caratura come l’intervista a Riccardo Staglianò e soprattutto la riflessione sul fascismo di Trump di Timothy Snyder, il celebre accademico statunitense autore di alcuni dei testi più importanti tra quelli che hanno cercato di ragionare sui mutamenti nella società e nella politica americana – e non solo – degli ultimi anni.
Ciò su cui ci vogliamo soffermare oggi, invece, è proprio quanto sta alla base di quelle estreme divisioni di cui sopra: il concetto stesso di verità. Il testo di riferimento, in questo caso, è Negazione, in cui il sociologo britannico Keith Kahn-Harris delinea il totale distacco dal concetto classico di verità e dal principio di non contraddizione incarnati dal post-negazionismo di Trump. La verità non è più un concetto assoluto, nell’era di Trump. Non solo dello spazio politico, ma anche nel tempo. In altre parole, non solo repubblicani e democratici possono avere serenamente – si fa per dire – ciascuno la propria verità, senza una reale base di valori condivisi, ma questa stessa verità “di parte” è per sua natura cangiante, influenzata dalla contingenza come forse mai prima nella storia umana.
Ne è una dimostrazione lampante il doppio sondaggio commissionato alla vigilia e all’indomani delle elezioni da Politico, i cui risultati sono stati pubblicati proprio in questi giorni. I rilevatori hanno posto agli elettori democratici e repubblicani le stesse domande nei giorni tra il 30 ottobre e il primo novembre, pochi giorni prima del voto, e tra il 20 e il 22 novembre, due settimane dopo la vittoria di Trump. In entrambi i casi, le due americhe che vi stiamo raccontando sono quantomai evidenti, ma ciò che è davvero preoccupante è come le opinioni che hanno probabilmente influito in maniera drastica sulla scelta alle urne, siano in grado di cambiare radicalmente in poco più di venti giorni.
Se prima del voto, ad esempio, 9 repubblicani su 10 erano convinti che i brogli elettorali sarebbero stati una delle questioni al centro del voto del 5 novembre, qualche giorno fa solo un terzo di questi ne era ancora convinto. Quindi il deep state, i complotti per impedire agli americani di esprimersi liberamente, l’oppressione dei media di sinistra, tutto finito. In meno di un mese.
E che dire dell’economia? Il 92% dei repubblicani si diceva certo che l’America stesse andando verso il baratro, ma oggi, a due mesi dall’insediamento di Trump, quasi il 30% degli elettori Maga si dice convinto che l’economia a stelle e strisce vada alla grande.
La cosa curiosa non è solo che il repentino cambio di opinione riguarda anche i democratici – a modo loro, neanche i liberal sono immuni dall’avvelenamento del clima politico e sociale negli USA – ma che questo porta a un’inedita “sintonia” tra le due curve, unite nel sospetto reciproco. All’indomani del voto, infatti, anche un terzo degli elettori di Harris è convinto che i brogli abbiano avuto un ruolo centrale nelle elezioni, ma a scapito della propria parte. E allo stesso modo, un democratico su tre ritiene che l’economia vada bene, ma prima del voto erano il doppio. In altre parole, l’economia che trovavano fiorente durante la presidenza Biden è per moltissimi democratici allo sfascio, ora, nonostante il vecchio Joe sia ancora alla Casa Bianca e – come stiamo vedendo ad esempio in politica estera – nel pieno delle sue funzioni esecutive.
Un divario non solo politico, quindi, ma sociale e persino psicologico. Che difficilmente potrà essere colmato da Donald Trump, che come vi raccontiamo in Ossigeno n.18 nel suo secondo mandato non ha alcuna intenzione di governare pensando anche all’altra America, quella metà del paese che per lui non ha (mai) votato.
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