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Immagine del redattoreEnzo Di Salvatore

Quando la coscienza nazionale si ubriaca in nazionalismo


«L'italiano da ottomila anni è identificato con la pelle bianca. Se vede una persona dalla pelle scura non pensa ad un italiano». Questo ha dichiarato ieri il generale Vannacci.

Lungi da me tornare ancora una volta sul libro del generale: ciò che mi interessa è il concetto sotteso a quelle parole.


Ottomila anni fa eravamo nel Neolitico, e cioè nell’età della pietra nuova (neo=nuovo; líthos=pietra), e non esisteva «l’italiano»: né nel senso del “popolo” italiano, né nel senso della “nazione” italiana. Popolo e nazione sono concetti che non possono essere tra loro confusi: il popolo designa l’insieme dei cittadini di uno Stato e, dunque, sta in stretto rapporto con esso (per questo si dice anche che il popolo è un elemento costitutivo dello Stato); della nazione, invece, esistono almeno due accezioni diverse: una “volontaristica” e una “naturalistica”. Quella “volontaristica”, che larga fortuna ebbe durante il XIX secolo, si ricollega, in particolar modo, alle idee di Giuseppe Mazzini (ma anche alle idee di Pasquale Stanislao Mancini e di molti altri). Al centro dell’idea di nazione trova collocazione il trinomio “libertà politica”, “indipendenza” e “unità”; si tratta di un trinomio che mira alla costruzione della realtà nazionale (e, dunque, alla costruzione dello Stato); quella “naturalistica”, invece, muove da fattori preesistenti allo Stato, da fattori “naturali”: una medesima lingua, una medesima religione, medesimi costumi. Anch’essa ebbe fortuna nella prima metà del XIX secolo, in special modo nell’area germanica (la Germania non esisteva ancora), soprattutto in funzione antifrancese e in reazione alle idee illuministe del tempo: si pensi, ad esempio, alla Scuola storica di Friedrich Carl von Savigny e all’idea dello “spirito popolare” posto a base della formazione spontanea del diritto (Volksgeist); e prima ancora ai “Discorsi alla nazione tedesca” di Johann Gottlieb Fichte (1808).


Sotto il Terzo Reich, tuttavia, questa idea “spirituale” di nazione degenerò in bieco “nazionalismo”: il nazionalsocialismo pose a base della sua dottrina (e purtroppo della sua azione) l’elemento biologico-razziale. E, attraverso la folle idea dello “spazio vitale” (Lebensraum), anziché umanizzare la Germania, i tedeschi pensarono di germanizzare il mondo. Sappiamo com’è finita.


L’idea di nazione è una idea nobile, ma quando si maneggiano parole e concetti occorre farlo con cura (e con prudenza). Di questa idea (e della degenerazione) ne ha trattato limpidamente Ortega y Gasset nel 1949, in un discorso che tenne agli studenti universitari di Berlino e che volle intitolare "Meditazione sull’Europa". Il discorso è ora ripubblicato dalla casa editrice People, in un volume che ho avuto l’onore di curare [dopo aver curato, sempre per People, "Questa nostra Europa", che raccoglie gli scritti di Piero Calamandrei, ndr]. Le parole e i concetti sono quelli che trovate in foto: che siano di monito a chi è generale e anche a tutti noi.


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