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Immagine del redattoreFranz Foti

Rosso Cobalto: lettere dal Congo


Con Pippo Civati e Stefano Catone abbiamo scelto di chiamare People la nostra avventura editoriale perché crediamo che il miglior modo di raccontare le storie che vogliamo presentarvi, sia quello di dare voce alle persone che ne sono protagoniste.

Chi ci segue da qualche anno ce lo avrà sentito ripetere mille volte, ma sono certo pazienterà nel sentircelo dire ancora una volta, perché forse mai come questa volta sono voci che meritano di essere ascoltate, quelle delle donne, degli uomini e dei bambini che giorno dopo giorno si avventurano nelle enormi fosse a cielo aperto che deturpano il volto del Congo per scavare alla ricerca di cobalto.

Dalla prima all’ultima pagina del suo potentissimo reportage - Rosso Cobalto, disponibile sul nostro sito da subito e da giugno in tutte le librerie - Siddharth Kara infatti non dimentica mai le voci, le testimonianze, il punto di vista di quelle persone che sono le protagoniste della storia, ma che sono anche al centro dell’obiettivo di questo libro: far conoscere all’opinione pubblica mondiale le orribili condizioni di lavoro e di vita degli abitanti delle regioni minerarie della Repubblica Democratica del Congo, perché questa cominci a domandare a gran voce alle multinazionali che sono all’apice di quella catena di sfruttamento che si adoperino, finalmente, per cambiare le cose, per ridare speranza e dignità a quella terra martoriata da secoli di sfruttamento.

Vogliamo condividerne con voi qualche breve passaggio, frammenti di alcune delle tante storie che troverete nel libro. Prendeteli come se fossero lettere rivolte a tutte e tutti noi. Non restiamo indifferenti.

Una giovane donna di nome Priscille stava in una delle vasche con una ciotola di plastica nella mano destra. Raccoglieva rapidamente terra e acqua con la ciotola e le gettava su un setaccio pochi centimetri di fronte a lei. I suoi movimenti erano precisi e simmetrici, come se fosse un macchinario progettato solo per questo scopo. Dopo che il setaccio si era riempito di fango e sabbia grigia, Priscille lo muoveva su e giù finché non vi rimaneva solo la sabbia. Quella sabbia conteneva tracce di cobalto, che lei raccoglieva con la sua ciotola di plastica in un sacco di rafia rosa. Chiesi a Priscille quanto tempo le ci volesse per riempirne uno. «Se lavoro molto duramente per dodici ore, posso riempire un sacco al giorno» rispose. A fine giornata, le donne si aiutavano a vicenda a trasportare i loro sacchi da cinquanta chilogrammi a circa un chilometro dal sito, dove i négociants li acquistavano per circa ottanta centesimi l’uno. Priscille mi raccontò che non aveva famiglia e viveva da sola in una piccola capanna. Suo marito lavorava in questo sito con lei, ma era morto un anno prima per una malattia respiratoria. Avevano cercato di avere figli, ma lei aveva abortito due volte. «Ringrazio Dio per aver preso i miei bambini» disse. «Qui è meglio non nascere.»


Josué era rimasto in silenzio per tutta l'intervista. Capii perché era riluttante a far rivivere a suo figlio questa tragedia. Prima che me ne andassi, Josué mi afferrò per un braccio e mi guardò con la faccia di un uomo furibondo. «Ora capisci come lavorano le persone come noi.» «Credo di sì.» «Dimmi.» «Lavorate in condizioni orribili e…» «No! Lavoriamo nelle nostre tombe.»


Se c'era un volto di questo squallore era quello di Elodie, una bambina sfigurata dalla pirateria mascherata da commercio. Aveva quindici anni e cercava cibo nella terra vicino alla periferia del lago Malo con indosso un pareo arancione sbiadito con uccelli viola che vi danzavano sopra. Era poco più che ossa e tendini. La sua faccia ossuta era incrostata di muco, i suoi capelli incrostati di terra. Soffriva di una tosse che le spezzava le costole. Il suo debole figlio di due mesi era avvolto strettamente in un panno sfilacciato intorno alla sua schiena. Avevo visto abbastanza per sapere com'erano le ultime fasi di un'infezione da Hiv, e quello era l’aspetto di Elodie. Sebbene si muovesse sulla terra con la forma e le sembianze di una bambina, era la negazione di quella parola. Elodie era rimasta orfana a causa dell'estrazione del cobalto. Suo padre era morto in un crollo del tunnel nel sito della KCC nell'agosto 2017. La madre di Elodie era morta circa un anno prima del padre. Lavava le pietre al lago Malo e, per quanto Elodie potesse ricordare, aveva contratto un'infezione dalla quale non era stata in grado di riprendersi. Dopo la perdita dei suoi genitori, Elodie si era data alla prostituzione per sopravvivere. «Gli uomini in Congo odiano le donne» disse. «Ci picchiano e ridono.»


Bisette tornò nella stanza dei colloqui e disse che era pronta per andarsene. Avevo fatto in modo che un collega la ripor- tasse al suo villaggio, ma lei disse invece che doveva andare a Kamilombe. Il mio cuore sprofondò. Ci poteva essere un solo motivo per andare a Kamilombe quel giorno. Era lo stesso motivo per cui ero in miniera il giorno prima. Nei lineamenti di Bisette avvenne un cambiamento che mi perseguita ancora oggi. Gridò, a nome di ogni madre in questo cuore di tenebra: «I nostri i bambini muoiono come cani».


Chiesi ad Arthur se pensava che l’esercito avesse trasferito con la forza gli abitanti del villaggio nell’insediamento per estrarre il cobalto. «Nessuno vuole vivere là fuori! Ma ci sono il cobalto e l’oro, quindi l’esercito prende i più poveri e li fa scavare.» Domandai ad Arthur se avesse sentito qualcosa in città sull’incidente, ma non c’erano notizie. Ipotizzò che il bambino sarebbe stato probabilmente sepolto sulle colline, come tanti altri che hanno scavato e sono morti senza lasciare traccia. Arthur bevve un lungo sorso della sua birra e mi fissò amareggiato. «Per cosa è morto quel bambino?» chiese. «Per un sacco di cobalto? È questo che valgono i bambini congolesi?»

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