Di fronte a quella che appare come una vittoria nettissima di Donald Trump, sarebbe sin troppo facile fare umorismo sugli eccessivi entusiasmi della campagna di Kamala Harris.
La vicepresidente ha chiaramente fallito l’obiettivo, ma possiamo dire che il compito che le era stato affidato poche settimane fa dal Partito Democratico era praticamente impossibile da realizzare.
I tripudi della brat summer hanno fatto dimenticare a più di qualcuno che all’annuncio del ritiro di Biden la vittoria di Trump era data più come una certezza che una probabilità.
Ciò nondimeno, per diverse settimane è sembrato che Harris fosse non solo in grado di colmare l’enorme gap accumulato da Trump, ma di sovvertirlo. Così non è stato.
Nonostante guru e veggenti la dessero come vincitrice, la realtà - chi ha seguito la nostra newsletter se lo ricorderà - è che da quasi un mese la spinta propulsiva della sua campagna sembrava ampiamente terminata, e il trionfale ritorno in campo di Obama appariva più come la testimonianza di una certa debolezza delle figure apicali del ticket democratico, che come “l’arma segreta” per portare a casa il risultato.
Nel frattempo, Trump e la sua accolita di rancorosi, il suo circo a tre piste di impresari della lotta libera, vecchie glorie del wrestling e rockstar di terz’ordine - ma anche di multimiliardari potentissimi e podcaster influentissimi - continuava in quella che è stata forse la peggior campagna elettorale della storia, ma indubbiamente una delle più efficaci. Nonostante gli scandali, gli enormi problemi giudiziari, una certa vecchiaia incipiente e ormai difficile da nascondere, il palazzinaro del Queens è riuscito in un'impresa rarissima nella storia americana: tornare alla Casa Bianca dopo essere stati sconfitti.
Come Jim Carville ripete da 32 anni, “It’s the economy, stupid!”. È l’economia ad aver pesato su questo voto. Più dei diritti riproduttivi, più degli insulti razzisti, più delle condotte eversive, più della pochezza di idee e delle relazioni pericolose a livello internazionale e interno.
Come ampiamente scritto in queste settimane, la percezione, giusta o sbagliata che sia - a nostro avviso sbagliata - è che “quando c’era lui” le cose andassero meglio. E questa puzza di fallimento i democratici non sono riusciti a levarsela di dosso nemmeno con le potenti iniezioni di pop star planetarie, vecchie glorie politiche e discutibili appoggi esterni da repubblicani che un tempo consideravamo - non a torto - il demonio e che la folle politica di questi anni ha trasformato nei più improbabili compagni di letto.
Allo stesso modo non ha pagato come si sperava la pur sacrosanta campagna per il diritto all’aborto, e persino i referendum sul tema che si sono tenuti in molti stati non hanno fatto da traino per Harris. Gli americani, ma soprattutto le americane, hanno serenamente votato a favore dell’aborto ma comunque per Donald Trump.
E se negli stati del sud e del Midwest l’economia l’ha fatta da padrone, nella Sun Belt anche la questione migratoria avrà certamente avuto un peso non indifferente. Il vero, grande fallimento dell’amministrazione Biden sul piano interno purtroppo era troppo grosso per essere nascosto sotto il tappeto. Soprattutto, come diverse analisi hanno mostrato, gli slogan dell’estrema destra - e le politiche tentennanti e inefficaci dei democratici - hanno portato anche una larga fetta di elettorato storicamente democratico a chiedere senza tanti giri di parole la deportazione dei migranti irregolari e una soluzione col pugno di ferro della crisi al confine col Messico. Perché è tanto banale dirlo quando doveroso ripeterlo: quando non si è in grado di offrire un'alternativa credibile alle politiche della destra, ma anzi si dà l'impressione di sposarle in versione "moderata", finisce che poi la gente preferisce l'originale.
I democratici sapranno cogliere il segnale inequivocabile di questo ennesimo rude awakening, o ancora una volta metteranno la testa sotto la sabbia, dicendo l’equivalente americano di “ma in Liguria siamo il primo partito”?
È finalmente giunto il momento di riprendersi dal testacoda in cui il partito dell’asinello è entrato nel 2016, con la sconfitta di Clinton e di cui abbiamo ampiamente parlato nel libro che dà il titolo a questa newsletter?
La conferma al Senato di numi tutelari della sinistra come Bernie Sanders e Elizabeth Warren, così come il ritorno al completo alla Camera del nucleo originale della Squad di Alexandria Ocasio-Cortez sono certamente notizie positive, per noi, ma non ci consolano. La strada è lunga, la salita ripida. E c’è bisogno di disegnare un percorso molto diverso da quello visto in questi anni, di continui tira e molla tra spinte progressiste e centrismi esasperati che hanno finito per offuscare i - forse non moltissimi - meriti che la presidenza Biden ha pure avuto, ma su cui non ha saputo costruire né tantomeno capitalizzare un bel nulla.
Qualcuno dirà che alla fin fine per noi in Europa e soprattutto in Italia cambia poco.
Ci spiace dissentire. Cambierà molto, temiamo.
Tanto per cominciare perché proprio sul piano dell’economia si apre con ogni probabilità una nuova stagione di dazi e protezionismo che a un paese essenzialmente esportatore come noi farà molto, molto male. In secondo luogo, i tripudi orgasmici che stiamo già vedendo nel campo dell’estrema destra europea fanno presagire un ulteriore addensarsi di quelle nuvole nere nel cielo d’Europa di cui ha scritto Civati qualche mese fa.
Non solo, i fautori della via pacifista al trumpismo - tanti ce ne sono anche a casa nostra, persino nella sedicente sinistra! - devono sapere che si apre anche una nuova stagione di riarmo, nel nostro continente, perché la Nato sta per vedere tornare sulla poltrona più grossa, quella di chi paga le bollette, il tizio che la voleva liquidare ben prima di Macron. Quello che ha detto ripetutamente che ora ciascuno dovrà pagare la propria parte. La pacchia è finita, direbbe la sua amica Giorgia. Solo che è finita anche per noi.
E non parliamo dei conflitti attualmente in corso. Se in Medio Oriente è finita la stagione di quelli che abbozzavano mentre Netanyahu si macchiava di crimini di guerra, è cominciata quella di chi ha detto che il genocida israeliano deve “finire il lavoro”. Altro che pacifismo.
Quanto all’Ucraina, questa avrà probabilmente finalmente i tavoli di trattativa che in molti invocano da più di un anno, ma ora con termini molto, molto diversi. Siamo tra quelli che ritengono che andasse trovata una soluzione diversa alla mera prosecuzione del conflitto con l'invasore russo, ma non è difficile immaginare che sotto la guida di Trump i termini di una "pace" saranno ben più favorevoli per Putin. Anche perché è bene ricordare che se Musk domani decidesse di chiudere i collegamenti di Starlink, il suo servizio satellitare che offre gratuitamente internet all’Ucraina, Zelenski si ritroverebbe da un momento all’altro senza una rete di telecomunicazioni essenziale alle operazioni militari, oltre che al funzionamento di quel che resta del suo paese.
Già, Musk. In un certo senso il vero vincitore è lui. Protagonista indiscusso della campagna, cui ha imposto il suo spin e il suo stile, in virtù dei finanziamenti generosissimi del suo comitato elettorale. Comitato che ha già annunciato continuerà a lavorare. Perché ciò che è sempre più chiaro è che il sostegno dell’uomo più ricco del mondo a Trump non è solo figlio di una gran voglia di pagare meno tasse possibile - che comunque -, non solo di veder aumentare i rapporti molto proficui tra le sue aziende e la pubblica amministrazione USA, ma sta assumendo i contorni di un’opa sul futuro di un partito repubblicano che oggi è quantomai ortodossamente trumpista, ma vista anche l’età della star di The Apprentice è destinato a diventare l’ennesimo asset del multimiliardario sudafricano.
E questo, forse, è l’elemento più inquietante di tutta questa brutta storia.
America vs America continuerà a raccontarvi il nostro punto di vista su quanto avviene negli USA, perché l’unica cosa certa e che di cose da dire ce ne saranno moltissime, nei giorni e nelle settimane a venire. A cominciare da una più seria analisi del voto, per cui è ancora troppo presto.
America vs America è una rubrica e una newsletter di Ossigeno e un libro per People, a cura di Paolo Cosseddu e Francesco Foti.
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