Il sociologo Chris Greer, in Notizie, Vittime e Crimine (edito da Sage), descrive la “vittima ideale” come “una persona o una categoria di persone che, quando subiscono un crimine, ottengono più facilmente lo status completo e legittimo di vittima. Questo gruppo include coloro che sono percepiti come vulnerabili, indifesi, innocenti e degni di compassione”. I bambini piccoli, ad esempio, sono le tipiche “vittime ideali” nella rappresentazione mediatica. Dall’altra parte, giovani uomini, persone razzializzate, senzatetto, tossicodipendenti e in generale “gli emarginati” sono molto più difficilmente percepiti come “vittime legittime”, o, peggio ancora, non sono nemmeno considerati meritevoli di essere percepiti come vittime. Non si tratta solo di sensazionalismo mediatico, ma di come lo stesso sensazionalismo passi per una gerarchia dei corpi socialmente costruita sulla base di classe, genere, età ed etnia. La morte di una ragazza bionda di buona famiglia, dove “buona” significherà ricca e bianca, è una tragedia. Se a morire è un ragazzo afrodiscendente, non siamo nemmeno sicuri di attribuirgli lo status di essere umano, come di recente ci ha ricordato La Stampa, che riportava in un articolo: “Non sarebbe di un ragazzo ma di un marocchino il cadavere trovato stamattina all’alba in via Ticino a Oleggio” (La Stampa, 28 luglio 2024). In Italia, quando si riportano fatti di cronaca, la bianchezza gioca un ruolo centrale non solo nella vittimologia mediatica ma proprio nel plasmare il modo in cui si fa informazione. La maggior parte delle narrazioni mediatiche privilegiano le esperienze delle vittime bianche, riflettendo una percezione radicata che associa la bianchezza con l’innocenza e la dignità, mentre chiunque non rientri in questo paradigma è visto come meno degno di compassione e attenzione. La bianchezza diventa un criterio implicito, ma potente, nella determinazione di chi merita di essere raccontato e come deve essere raccontato. Così, l’informazione perpetua una visione del mondo in cui alcune vite sono considerate meno importanti di altre.
Prendiamo il caso del naufragio di centinaia di persone migranti il 20 giugno 2023 al largo di Pylos, in Grecia. Sono più di 600 le persone disperse. È uno dei naufragi più grandi e terribili da quello del 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa. In Italia, la notizia è riportata in versione cartacea solamente dal quotidiano L’Avvenire. Gli altri principali quotidiani, invece, dedicano spazio alla notizia solo nelle testate online, tra articoli sul guardaroba di Lenny Kravitz e le nuove ricette da provare assolutamente a tavola. Nello stesso giorno, c’è un’altra imbarcazione dispersa che, invece, trova spazio su quasi tutti i quotidiani. È il sommergibile Titan, disperso con a bordo cinque passeggeri che, per 250mila dollari a persona, hanno intrapreso un viaggio verso il fondale oceanico per osservare i relitti del Titanic. La storia la sappiamo, anche perché per settimane abbiamo avuto notizie di tutti i tipi su chi fossero le persone a bordo del Titan, quali fossero le loro emozioni, che lavori facessero, cosa avessero detto la moglie, la mamma e il vicino di casa. E qui vediamo come quei cinque morti ricchi valgono molto di più dell’attenzione riservata a 600 migranti naufragati. Dei passeggeri del Titan abbiamo un quadro dettagliato sulle loro vite; delle persone che perdono la vita nel Mediterraneo non sappiamo quasi nulla. Cosa che è poi anche la prima strategia dietro ai confini che dividono il Nord globale dal Sud globale: disumanizzare.
La disumanizzazione funziona anche al contrario, quando il frame è quello del crimine. Da anni assistiamo all’etnicizzazione della notizia criminale, ovvero il fenomeno mediatico per cui la nazionalità, l'etnia o la provenienza geografica di una persona vengono enfatizzate in modo sproporzionato quando questa persona è coinvolta in un crimine. Questo tipo di narrazione suggerisce implicitamente che l'origine etnica o nazionale dell'individuo sia un fattore rilevante per spiegare il suo comportamento criminale. Un esempio classico è un titolo riportato da TGcom24 (18 giugno 2024): “Milano, nigeriano con un’accetta aggredisce agenti a morsi: arrestato”. La stessa notizia è stata riportata da Sky TG24 con il titolo: “Milano, arrestato uomo armato di accetta: un agente ferito”. Indovinate quale dei due titoli è finito sul profilo social di Matteo Salvini con la scritta “ESPULSIONE”? E perché proprio il primo? Il perché lo spiega l’associazione Carta di Roma, fondata per dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi migratori. Le parole usate sono tutt’altro che banali, dato che impattano sulla percezione che il pubblico ha delle persone migranti, alimentando discriminazioni e generalizzazioni. Paola Barretta, portavoce dell'associazione, riporta come tra gli elementi di maggiore continuità nel corso degli anni vi sia il binomio immigrazione-criminalità e la relativa – e arbitraria – generalizzazione tra appartenenza nazionale e comportamento individuale.
La questione diventa ancora più evidente quando i giornali parlano di femminicidi e violenze sessuali. Qui l’argomento è particolarmente rilevante, visto che l’etnicizzazione della notizia criminale si interseca con una quasi sempre problematica operazione comunicativa delle donne vittime di violenza patriarcale. In Italia siamo abituati a vedere sparire la storia delle donne vittime di femminicidio a scapito di compagni ed ex compagni che “le amano troppo”. Ricorderemo, forse, la storia del femminicidio di Vanessa Ballan. I quotidiani – tutti – parlavano o della gelosia dell’uomo che l’aveva uccisa o dell’eroismo del compagno di Ballan che aveva accompagnato la vittima a denunciare (che, giusto per chiarire, è il minimo indispensabile). Finì con la creazione di una gogna mediatica a causa della storia di Ballan con il suo femminicida e, in concomitanza, vi fu una totale santificazione di Nicola Scapinello, il compagno di Ballan, il quale, secondo la narrazione dataci in pasto dai quotidiani, malgrado il tradimento aveva sostenuto la fidanzata. La vittima, intanto, che fine ha fatto? Lo stesso è accaduto nel caso di Giulia Cecchettin, che ha smosso giornali, telegiornali e talk show. Dopo qualche giorno dal suo femminicidio, diversi periodici hanno iniziato a raccontare la storia del femminicida Filippo Turetta come se fosse una serie tv: “Turetta piange” (Il Messaggero, 28 novembre 2023), “Turetta è disorientato” (Il Mattino, 25 novembre 2023) e “Turetta parla col padre” (Il Resto del Carlino, 27 luglio 2024). Giulia Cecchettin sparisce.
La donna vittima di violenza sparisce anche quando è vittima di violenza da parte di una persona migrante o con background migratorio. In questi casi, la storia della donna viene oscurata dalla nazionalità del violentatore. Se il cittadino italiano uccide perché ama troppo, lo straniero è reo di un terribile crimine, ma solo perché non è italiano. E così si passa da “Il marito la uccide in un raptus di gelosia” (Il Giornale, 28 dicembre 2021) a “Fermato senegalese per lo stupro di una ragazza di 15 anni” (La Repubblica, 25 agosto 2018). In entrambi i casi, si ignora la questione della violenza di genere e, nel secondo, l’argomento si sposta sull’immigrazione piuttosto che sull’enorme questione strutturale che è la violenza di genere in Italia. La stessa strategia fu usata da Giorgia Meloni quando, durante la campagna elettorale che la vide vincere, pubblicò il video dello stupro di una donna ucraina avvenuto a Piacenza. La sopravvissuta alla violenza non venne tutelata in alcun modo, anche perché il vero punto della pubblicazione di quel video era che lo stupratore fosse un richiedente asilo, e questo sarebbe stato funzionale alla propaganda di Meloni. Eppure, in Italia, secondo i dati Istat, gli stupri sono commessi in oltre tre quarti dei casi da persone con cui la vittima ha una relazione affettiva o amicale, e gli stupri subiti dalle donne italiane sono stati commessi da italiani in oltre l’80% dei casi. Questo non vuol dire che una persona migrante non possa essere violenta o non possa commettere crimini, ma il focus dovrebbe essere sullo stupro e la violenza di genere, non la nazionalità. La nazionalità diventa invece importante per il titolo del giornale e ha l’effetto collaterale di fomentare l’odio e di inquadrare i soggetti migranti come perpetuatori di crimini, come titolava La Verità il 24 agosto 2022: “Porte aperte al prossimo stupratore”, suggerendo che accogliendo migranti avremmo aperto le porte a stupratori.
Se ci allontaniamo dai casi di cronaca nera o di violenza, onestamente la situazione non cambia molto. Prendiamo il caso di sportivi di seconda generazione afrodiscendenti. Quando le cose vanno bene, sono italiani; quando le cose vanno male, smettono di esserlo. Uno degli esempi più chiari è stato quello della pallavolista azzurra Paola Egonu, a seguito della sconfitta nella semifinale con il Brasile nel 2022. Su Egonu, che ad agosto ha avuto un ruolo centrale nella vittoria dell’Oro olimpico per l’Italia, si scatenò sui social una gogna razzista. Egonu annunciò una probabile ritirata dalla Nazionale, facendo riferimento agli insulti razzisti ricevuti. Le sue dichiarazioni trovarono spazio su Al Jazeera, rete televisiva e canale di notizie del Qatar. In Italia, invece, Riccardo Signori scrisse sul Giornale (16 ottobre 2022): “Paola, stavolta non è questione di pelle, ma di stress”. Innanzitutto, “Paola” non è la cugina di Signori, ma una pallavolista di fama mondiale e, in tutto questo, ha un cognome. Signori riesce a unire razzismo, mansplaining e una dose di audacia in una sola frase, per poi procedere scrivendo: “Se fosse bianca e si chiamasse Paola Egoni, oggi si sentirebbe meglio? Difficile rispondere. Ma si potrebbe azzardare un forse no”. O forse, se la pallavolista diceva di sentire il peso del razzismo sulla sua salute mentale, Signori avrebbe potuto non azzardare e avrebbe potuto riflettere sul razzismo nello sport. Menzione d’onore va pur sempre a Libero, che dopo il ritorno della pallavolista e la sua partecipazione a Sanremo come co-conduttrice con un monologo sul razzismo in Italia, decise di titolare in prima pagina: “Noi le diamo la maglia azzurra. Lei ci dà dei razzisti” (Libero, 10 febbraio 2024).
Nonostante il mondo dell’informazione continui a presentare numerosi problemi, ci sono timidi segnali che indicano un cambiamento positivo. Come sottolinea Paola Barretta, un aspetto positivo è l'aumento della visibilità dei casi di razzismo e discriminazione. Oggi, i media stanno cominciando a dare voce alle vittime di discriminazione e violenza a causa della loro appartenenza etnica o nazionale, offrendo una piattaforma per raccontare storie di ingiustizia di matrice razzista. Un altro progresso positivo è il calo nell'uso di termini stigmatizzanti come “clandestino” o “zingari”. Questi termini, un tempo comuni, sono gradualmente scomparsi dalle principali testate giornalistiche. Barretta prosegue elencando alcuni esempi di un cambiamento della prassi, tra cui il "caso di Fermo" che nel luglio del 2016 ha catturato l'attenzione dei telegiornali e dei quotidiani per giorni. Infatti, l’aggressione razzista che ha portato alla morte del giovane Emmanuel Chidi Namdi è stata condannata unanimemente dalle redazioni, mettendo in luce la consapevolezza dei giornalisti riguardo il bias a sfondo razzista. Nello stesso periodo, trovava spazio anche la morte di Sekine Traore, un giovane maliano, ucciso da un carabiniere nella baraccopoli di San Ferdinando. L’omicidio ha stimolato un dibattito sulle condizioni di sfruttamento e abuso dei lavoratori, sia stranieri che italiani, nelle campagne del Sud Italia, così come l’uccisione di Satnam Singh a giugno di quest’anno. Anche se, a dirla tutta, la maggior parte dei quotidiani più importanti, parlando di Singh, ha quasi sempre usato il termine “morte” senza attribuire alcuna responsabilità al titolare dell’azienda agricola, Antonio Lovato, che invece relativamente a quella morte aveva molte responsabilità (anche perché per Lovato è stata disposta la custodia in carcere con l’accusa di omicidio doloso, ma evidentemente non siamo ancora arrivati a questi livelli). E, in ogni caso, l’informazione non rappresenta l’urgenza che richiederebbe la denuncia del bracciantato nel nostro Paese, che arriva all’attenzione dei media solo in questi casi e per il resto procede indisturbato, invisibile e quotidiano.
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