È uscita la docuserie sul “giovane Berlusconi” - tra virgolette, giacché inizia nel periodo del mattone e di Milano 2 e finisce con il giuramento del suo primo Governo, escludendo i suoi veri primi anni su cui invece c’era sicuramente molto da spiegare, e gli ingloriosi ultimi - ed è piuttosto agiografica, anzi decisamente celebrativa. Era prevedibile, Marcello Dell’Utri, Adriano Galliani o “Fidel” Confalonieri di certo non avrebbero partecipato a un’operazione in cui si parlava male del loro capo (Gianni Letta, coerentemente, è rimasto dietro le quinte, anche adesso che non c’è più nemmeno il palco), ciò nonostante ci si ritrova a sorprendersi del fatto che la temuta glorificazione di Berlusconi, anche da parte di chi come nel caso di Netflix rappresenta interessi concorrenziali a quelli della sua azienda, non solo è inevitabile ma non aspetterà nemmeno il consueto passare del tempo. Si può raccontare la trama di Apocalypse Now dicendo che è la storia di un viaggio in barca? Evidentemente, sì, ma basta immaginare che tipo di documentario avrebbe potuto scrivere Marco Travaglio, o cosa avrebbero potuto dire Carlo De Benedetti o Eugenio Scalfari se fossero stati tra i testimonial scelti, per figurarsi uno svolgimento molto diverso (ma anche una via di mezzo sarebbe stata sufficiente, ecco). Le tre puntate della serie non raccontano quasi nulla che chi conosce la materia già non sappia, ma colpisce sempre la totale incapacità della società italiana (e della sinistra in particolare) di comprendere il cambiamento, cosa stava arrivando e soprattutto il fatto che, essendo inevitabile, non andava aprioristicamente demonizzato, personificandolo in un nemico ben preciso con nome e cognome, ma banalmente governato, dando all’Italia leggi moderne, chiare, in grado di garantire assetti mediatici e informativi degni di un Paese democratico maturo. Non è andata così (l’Italia è ancora governata con la stessa miopia, da destra a sinistra, peraltro), si è scelta la via dei pretori e delle ordinanze, e come risultato si è finiti travolti.
Il conflitto di interessi, di cui molto si è parlato per anni e anni senza mai arrivare a uno straccio di risultato, proprio perché si è concentrato così a lungo sempre e solo su Berlusconi, è poi improvvisamente sparito dal dibattito, come se il graduale allargamento dell’offerta informativa - tra digitale, satellite, internet e chi più ne ha più ne metta - lo avesse automaticamente risolto, mentre invece è più vivo che mai, a dispetto del fatto che colui che lo ha rappresentato per decenni è ormai sottoterra. Da un mese, per dire, si discute della possibile cessione di Agi da parte di Eni, che avrebbe ricevuto una proposta di acquisto da Antonio Angelucci, già editore tra gli altri di Libero, del Giornale e del Tempo, oltre che parlamentare attualmente della Lega e in passato di Forza Italia e del Pdl. Eni, che per il 30 per cento è del Tesoro, smentisce il bando di gara, ma ammette che l’offerta di Angelucci è sul tavolo (unica, per ora), mentre fonti di FdI confermano un incontro fra l’interessato e Giorgia Meloni, che avrebbe dato la sua benedizione all’operazione. Che un’azienda a partecipazione pubblica venda una grande agenzia di stampa (che tanto per cominciare non dovrebbe proprio possedere, sia detto per inciso) a un esponente della maggioranza di governo, come minimo, è problematica, e infatti se ne dovrà interessare pure la Commissione europea, verificando il rispetto di quel Media freedom act che era stato originariamente ideato, pensate un po’, per Paesi tipo l’Ungheria. Già.
Nel frattempo, i giornalisti di Repubblica sono entrati in agitazione, hanno sfiduciato il direttore Molinari, dopo precedenti riguardanti la deriva intrapresa da quello che una volta era “il quotidiano della sinistra”, e hanno comunicato il ritiro delle loro firme dagli articoli, dopo che proprio Molinari aveva fatto “ammorbidire” un pezzo di Affari & Finanza che parlava troppo esplicitamente di Stellantis, gruppo proprietario della testata, e mandato al macero 100mila copie già stampate. La situazione, va detto, è oggetto da mesi di una campagna portata avanti quasi in solitudine da Carlo Calenda, che accusa la famiglia Agnelli di voler sostanzialmente sbaraccare il comparto auto in Italia, dopo aver lungamente garantito e promesso investimenti e crescita. Cosa che i giornali di famiglia evitano accuratamente di riportare, ben lieti, invece, di pagare il conto del conferimento in discarica, tutto sommato modesto (per loro). Che è un po’ lo stato attuale dell’informazione tradizionale: sempre meno gente la segue, ma ancora orienta il dibattito, e la politica, e quindi val bene qualche investimento a fondo perduto. Il Foglio, già quotidiano della famiglia Berlusconi (“tendenza Veronica”, si definiva un tempo) ha ritenuto di commentare la vicenda spiegando che ebbene sì, la stampa deve fare gli interessi di chi la possiede, e che comunque è il mercato, cioè il lettore, a decidere, questo benché la testata fondata da Giuliano Ferrara sia destinataria di un’importante quota di fondi pubblici. E questi sarebbero i liberali, per inciso.
Come se non bastasse, in vista della campagna elettorale, l’esecutivo ha fatto passare una modifica della par condicio grazie alla quale il tempo televisivo concesso agli esponenti del Governo verrà scorporato da quello che dovrebbe essere più o meno equamente diviso tra i partiti che corrono alle elezioni, come se ministri e sottosegretari venissero da un’altra dimensione, come se insomma non si trattasse sempre delle stesse persone. Sono invece saltati gli emendamenti proposti da Maria Elena Boschi sulla regolamentazione delle presenze dei giornalisti, secondo alcuni un modo per introdurre una sorta di schedatura degli stessi sulla base dei loro supposti orientamenti: una misura troppo morbida, forse, visto che contestualmente FdI propone la reintroduzione del carcere per i giornalisti colpevoli di diffamazione, proposta già dichiarata illegittima dalla Cassazione, in passato, perché banalmente illiberale. C’è poco di cui stupirsi, se è vero, come scrive il Corriere, che Amadeus (e forse pure Fiorello, a ruota), starebbe per lasciare la Rai perché stanco delle ingerenze: in vista dell’ultimo Sanremo, la tivù di Stato oggi in mano alla maggioranza di Governo (ma pagata da tutti) avrebbe fatto pressioni perché il conduttore facesse concorrere Povia, inserisse nel cast Hoara Borselli, nominasse Mogol direttore artistico e organizzasse un “pranzo di cortesia” (sic!) con Pino Insegno. Se questo è il livello di libertà concesso alle canzonette, figuriamoci cosa può succedere a chi fa informazione.
Infine (almeno per ora), Giuseppe Conte, il noto fortissimo punto di riferimento dei progressisti, avrebbe stretto un patto con il Governo per avere la direzione del Tg3, strappandolo così al Pd e conquistando quello che simbolicamente è da sempre considerato un fortino della sinistra, sin dai tempi di TeleKabul. Inutile dire che se, nelle numerose occasioni in cui è stata al governo (ma anche dall’opposizione, perché no), la suddetta sinistra avesse provato a regolamentare l’autonomia dell’informazione, specie quella pubblica, ponendo fine alla lottizzazione da parte dei partiti, non staremmo ancora parlando, nel 2024, dei partiti medesimi che si dividono i telegiornali come se fosse una cosa normale. Ma sarebbe stato necessario rinunciare anche alla propria quota, di quella lottizzazione, e quindi non se n’è mai fatto nulla. Complimenti.
Se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, a questo punto vi sarete fatti un quadro abbastanza preciso della situazione, invero oscena, ma tenete presente che tutto quanto descritto sopra riguarda solo il mese corrente: e fa una certa impressione, francamente. Ripensando all’epopea di Silvio Berlusconi, va detto che gli ultimi anni della sua parabola non sono stati brillanti quanto i precedenti, e forse anche per questo la docuserie che lo racconta si ferma ben prima. Il Berlusconi dal 2010 in poi era a fine corsa, certo ancora potentissimo, ma troppo compromesso, e soprattutto non più al passo coi tempi. E forse anche noi ci siamo rilassati un po’, pensando che fosse finalmente giunto il momento di andare oltre. Invece, sorpresa, a meno di un anno dalla sua morte il suo mito riverbera, nel ricordo non delle sue miserie - quelle raccontate da Sorrentino nel suo film sostanzialmente ignorato, per esempio, e oggi quasi rimosse - ma dei suoi successi. Ottenuti, beh, non importa come, a quanto pare. Perché il mondo che è venuto dopo di lui, questo mondo qui, gli somiglia più che mai.
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