Il generale Vannacci ha scritto un libro fieramente razzista e sessista, che, in una manciata di giorni appena, si è collocato al primo posto nella classifica dei libri più venduti su Amazon.
Trecentosettantatré pagine nelle quali si sostiene di tutto: che gli omosessuali non sarebbero “normali”, che i tratti somatici di Paola Egonu non rappresenterebbero “l’italianità”; che in Italia vigerebbe ormai la “dittatura delle minoranze”, che le città sarebbero ormai preda di “single benestanti”. Ce n’è per tutti: per le femministe, per gli ambientalisti, per gli immigrati, per coloro che delinquono e che meriterebbero la più severa delle punizioni se sorpresi a rubare in casa. Nel frattempo, mentre il generale è stato rimosso dal suo incarico per essere assegnato ad altra mansione, c’è chi si schiera apertamente dalla sua parte, come, ad esempio, l’ex senatore Simone Pillon, che sottolinea come il generale abbia tutto il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni. Nessuno lo mette in dubbio. E, d’altra parte, il nostro è un Paese talmente liberale e democratico che se è possibile acquistare con un clic il Mein Kampf di Hitler, figurarsi se non debba essere possibile acquistare anche “Il mondo al contrario” di Vannacci. Il punto, tuttavia, è un altro.
Vannacci ha tutto il diritto di dire ciò che vuole, nei limiti, però, tracciati dalla Costituzione repubblicana e dalle leggi penali. Sono queste che vigono, non le leggi di Norimberga. È la Costituzione italiana che si erge a parametro di legittimità delle scelte politiche di un Paese, non il Manifesto della razza.
I diritti di libertà – e dunque anche la libertà di manifestazione del pensiero – non sono illimitati. Il loro esercizio incontra due tipi di limiti: quelli propri considerati dalla relativa fattispecie (per es., in relazione alla manifestazione del pensiero, il buon costume) e quelli derivanti dall’esercizio di altri diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, nel caso in cui si determinasse un conflitto tra gli stessi (per es., in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero, il diritto alla privacy). Si può parlare, ma non si può, per esempio, affermare il falso. Si possono esprimere anche duramente le proprie idee, ma non si può, per esempio, istigare qualcuno a commettere un reato. Si può esprimere una opinione, ma nel farlo non si può, per esempio, infangare la reputazione altrui; e via discorrendo. Perché a nessuno – per riprendere le parole del costituzionalista Carlo Esposito – è dato il diritto di ergersi a giudice dell’altrui dignità.
Vannacci sostiene che la diversità culturale, sociale, etnica, ecc. sia un fatto che corrisponde alla realtà dei fatti. Dov’è lo scandalo? Lo scandalo è, per così dire, politico-giuridico, giacché quella diversità, nei termini intesi da Vannacci, è assolutamente irrilevante per la nostra Costituzione: la quale, pur garantendo la libertà di manifestazione del pensiero a tutti, dice anche che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Sostenere che Paola Egonu “ha tratti che non rappresentano l’italianità” non è un fatto, ma un giudizio di valore che ha rilievo dal punto di vista costituzionale, giacché tocca la sua dignità di cittadina; ed è un giudizio di valore non molto diverso da quello che si avrebbe se si sostenesse che l’ebreo Samuele possieda tratti che non rappresentano l’arianità.
Quella di Vannacci è una storia già vista e purtroppo vissuta: una storia sulla quale la Costituzione repubblicana ha inteso scrivere la parola “fine”. Del resto, anche quella storia iniziò con un libro. E non occorre certo ricordare qui quale fu il suo tragico epilogo.
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