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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Via dalla pazza folla


Foto di Alexander Shatov su Unsplash

I social sono pessimi, tutti. E… sì, lo state leggendo da un link che noi stessi abbiamo pubblicato sui social: l’ironia non ci sfugge, e la contraddizione nemmeno. Qual è l’alternativa? Smettere di pubblicare sui social network e però, contestualmente, rinunciare ad avere dei lettori. Che non ha molto senso, perché si scrive per esser letti, dopotutto. Questa è la realtà dei fatti, ed è importante rendersene conto prima di fare qualsiasi altro ragionamento.

Ciò premesso, Elon Musk è preoccupante, pericoloso? Non c’è dubbio. Ma non è poi tanto diverso da Mark Zuckerberg, uno che sulla sua piattaforma ha permesso di influenzare elezioni e diffondere fake news. Anche la proprietà di TikTok, a dirla tutta, non è rassicurante. Miliardari brava gente non se ne ricordano molti, quelli nuovi non sembrano fare eccezione, sarà benaltrismo, ma le cose stanno così. Musk ha solo fatto un salto di qualità, traslando la disruption dell’era digitale dai mercati alla politica, si è comprato un social apposta per vincere le elezioni e ci è riuscito, col senno di poi è strano che nessuno dei suoi colleghi ci avesse pensato prima. Il che lo rende forse più pericoloso, o forse più sincero, direbbero alcuni: prendere direttamente o quasi il potere invece di cercare di influenzarlo, più disruptive di così…

 

Twitter, oggi X, è stato il primo social di un certo successo, pur rimanendo, col tempo, un po’ più piccolo degli altri, ma stiamo comunque parlando di numeri inimmaginabili per qualsiasi altro mezzo di diffusione mai esistito: si stimano 400 milioni di utenti attivi su poco più di un miliardo totali, comunque meno di Facebook e di Instagram, oltre che del già citato TikTok. Questi ultimi due, per via della loro natura visiva, e per come sono costruiti, generano anche volumi decisamente più alti: un tweet di successo fa numeri ridicoli, rispetto a un video medio pubblicato come reel o come storia altrove. Che valore e credibilità reale abbiano poi queste views, che muovono denari, sponsor, intere economie, senza che nessuno si chieda mai quanto sono effettive, non si sa con precisione, ma tutti evidentemente lo accettano senza farsi troppe domande: per anni si sono dette le stesse cose anche dell’Auditel, ma questo non ha mai frenato gli inserzionisti televisivi. Comunque, l’ex uccellino azzurro resiste alle mode, laddove altre piattaforme hanno fatto una brutta fine: senza risalire ai tempi remotissimi di MySpace, probabilmente pochissimi oggi si ricordano di Friendfeed, che era organizzato per discussioni aggregate da varie fonti e aveva un suo perché, anche se non ha mai sfondato (era utile per imbastire ragionamenti e discussioni complesse, articoli che non tirano), per tacere dell’amaro fallimento del social su cui tanto aveva investito una superpotenza come Google. Anche Threads, che Zuckerberg aveva lanciato proprio per prosciugare X, ristagna, e oggi qualcuno invita a trasferirsi su Bluesky, che però rischia di fare la stessa fine.

 

E quindi? Beh, intanto Twitter ha una sua specificità, che lo rende difficile da rimpiazzare: in un mondo di social di grande successo che sostanzialmente veicolano video e foto, e in cui si arriva al paradosso di dover scrivere dentro a un’immagine per sperare di far leggere qualcosa all’utente finale, Twitter era nato in un periodo in cui la definizione stessa di social network non si era ancora diffusa, e infatti veniva definito come piattaforma di microblogging. Prima degli smartphone, quando per postare si scriveva l’equivalente di un sms, motivo per il quale si doveva stare nei 140 caratteri. Più delle foto e più dei video, che per essere popolari quasi sempre richiedono un certo infighettimento, l’aggiunta di grafiche, animazioni, cazzabubboli volanti e ogni genere di orpello, il post su Twitter è essenziale, veloce. E questo è il motivo per cui, malgrado da quando è stato acquistato da Musk sia oggettivamente diventato una cloaca ingolfata da spazzatura spinta via algoritmo, ancora adesso è il sistema più efficace per informarsi, avendo notizie dirette, concise e in tempo reale. Anche al netto dei post di Musk stesso, che essendo il padrone siamo costretti a trovarci in timeline, continuamente, per forza. Mica per niente è il mezzo preferito da Trump, che lo usa in modo terribile ma tecnicamente fenomenale. L’alternativa è andarsi a leggere le notizie sui giornali, sui media tradizionali di varia natura, con l’obbligo di doverne monitorare una caterva, schivando tutto ciò che di poco interessante pubblicano, che non è poco, e constatando che comunque quasi sempre raccontano cose che sono “successe” proprio sui social. Un lavoraccio. Viceversa, il Guardian può anche lasciare X, ma se pubblica qualcosa di rilevante molto probabilmente qualcuno condividerà il link e molti lettori lo vedranno proprio su X prima che su qualsiasi altro mezzo di diffusione. E quei contenuti, spesso, parleranno proprio di Musk: tombola.

 

La verità, quindi, e che i social sono il male, ed è vero che dovremmo lasciarli, però ognuno di essi, tutti insieme, senza distinzioni, anche se pubblichiamo solo foto del nostro cane, perché alla fine tutto fa volume ed è il volume che conta. Molti hanno ironizzato su Piero Pelù, tra i personaggi noti che hanno mollato X di recente: lui certamente ha buone intenzioni, però un po’ ha ragione chi lo sfotte, non solo perché a Musk può anche non fregare nulla di Piero Pelù, ma perché lì sopra le sue canzoni e le sue dichiarazioni passate e future circolano come prima e quindi, finché non se ne vanno più o meno tutti, a cosa servono queste dimostrazioni di principio?La rete è ancora quel posto meraviglioso, pieno di possibilità, che affascinava i suoi primi utenti oltre un quarto di secolo fa, quando il Louvre metteva sul suo neonato sito le foto dei propri capolavori e si mandava il link agli amici aggiungendo “vai a vedere questa meraviglia”. Poi è arrivata la massa, e al posto della Gioconda ci mandiamo video di gente che si fa spremere i brufoli: è come poter entrare nella biblioteca di Alessandria e andare a cercare le istruzioni per il frullatore, ma è andata così. Steve Jobs, che è un po’ il protoresponsabile di tutta questa deriva, diceva di voler mettere in comunicazione le persone, lui che non riusciva a parlare nemmeno con sua figlia e aveva tendenze spiccatamente asociali. Il mondo che lo ha seguito gli somiglia parecchio, e salendo su un mezzo pubblico potreste notare che sono tutti chini sui loro device, se non fosse che lo siete anche voi, isolati dal famoso consesso umano. Appena prenderanno piede gli indossabili, in particolare modelli di visori un po’ meno impegnativi del Vision Pro di Apple, la situazione peggiorerà ulteriormente, e visti da fuori sembreremo dei cretini fatti e finiti. Ma si diceva la stessa cosa anche dei primi che venivano avvistati parlare al telefono per strada con i cellulari, negli anni ’90, e questo non ne ha frenato la diffusione. Quando c’erano i BlackBerry, chi lo possedeva ne faceva uno status, e preferiva spippolare l’apparecchio piuttosto che badare al proprio interlocutore, perché trovava l’apparecchio molto più interessante. Ironicamente, l’azienda che li costruiva è stata tra le prime a venire travolta dalla rivoluzione, ma di certo non è più uno status, visto che oggi tutti noi ci comportiamo così, persino in famiglia. Ed è vero, sono discorsi un po’ da boomer, e si diceva la stessa cosa della tivù e siamo ancora tutti vivi, vero pure questo, ma se uno è vecchio abbastanza da averle vissute, queste fasi, una riflessione a un certo punto gli sorge spontanea.

 

Più o meno una ventina di anni fa, una famosa fruit company finì all’attenzione del pubblico per via di alcune pratiche terribili riguardanti le condizioni di vita e lavoro nei propri campi: la Coop italiana si preoccupò della possibile pubblicità negativa, magari persino un boicottaggio, e ottenne accordi particolari per avere la garanzia che la propria frutta fosse coltivata in situazioni più umane. Seppur già indebolita, quell’episodio era un esempio per quanto piccolo di quella cosa chiamata dimensione collettiva, che può far fronte comune per sostenere una causa e ottenere un risultato, solo che poi è stata completamente sostituita da quella individuale e digitale. Che si rianima, se si rianima, quando accade qualcosa di veramente brutto e si sente il bisogno di condividere la propria vicinanza (l’ultima volta è successo col Covid, e visto il risultato probabilmente non capiterà più): fino a qualche anno fa si cambiava la foto profilo, ora al massimo si fa uscire una storia, che verrà cacciata nel nulla non appena ne seguiranno altre. Noi ci sentiremo meglio, il nostro contributo alla risoluzione del problema sarà nullo, ma tutti fingeremo di essercene occupati.

 

Ma le premesse erano un po’ più ambiziose: il primo politico globale ad aver colto le potenzialità del mezzo era stato Barack Obama, che era giovane, era figo, e faceva sperare in un futuro digitale di democrazia e infinite possibilità. Poteva anche essere l’occasione, per la politica, di normare questi nuovi settori, comprenderli, impedire che si mangiassero tutto il tessuto sociale ed economico, prima che diventassero troppo forti da poter essere ostacolati, più forti degli Stati sovrani e delle democrazie. Non è successo. Certo, possiamo firmare i referendum con lo Spid (finché dura), che è una bella innovazione, ma per il resto siamo finiti, oltre che con Trump, con Salvini che bacia i prosciutti, segno evidente che qualcosa è andato storto. Sarebbe bello dire che a un segnale convenuto ce ne andiamo tutti, e ci riprendiamo le nostre vite, ma al momento purtroppo nessuno sembra averne la benché minima intenzione.

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